Da qualche tempo, oltre alla bagarre quotidiana sulla paternità dell’antisemitismo, il bersaglio principale degli osservatori politici è la sinistra. E in particolare la sinistra “radical chic”. È uno dei cavalli di battaglia della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che, facendo finta di dimenticarsi di governare ormai da qualche tempo, continua a scaricare sui governi precedenti tutte le responsabilità di un “non governo” dell’economia (come se negli ultimi venti anni non avesse governato il berlusconismo). Ed è anche uno degli argomenti che vanno per la maggiore per spiegare l’onda di destra in Europa. Uno degli ultimi esempi è stato l’editoriale di Federico Rampini sul “Corriere” del 2 luglio. Chiedendosi come sia stata possibile una crescita così impetuosa della famiglia Le Pen in Francia, l’editorialista scarica tutte le responsabilità sui socialisti francesi, sulla sinistra glamour, ritornando indietro fino alle scelte politiche di Mitterrand.
L’origine di tutti i mali, secondo Rampini, sarebbe il vezzo della sinistra parigina (e pariolina) di separare la battaglia per i diritti civili da quella per i diritti sociali, dimenticando e in fondo rinnegando la classe operaia e i pensionati che diventano inevitabilmente di destra perché hanno paura degli immigrati della banlieue. Stando a Rampini – autore che non ricordiamo dalla parte dei movimenti e del cambiamento sociale – la sinistra non riesce più a essere tale perché non sta più dalla parte degli ultimi, perché è troppo ricca e preferisce schierarsi sempre con l’immigrato contro il pensionato, perché appunto fa più chic.
Lo stesso discorso potrebbe essere esteso alle grandi scelte economiche che attendono tutti i Paesi europei, visto che la famosa transizione di cui si parla non sarà altro che una grande riconversione industriale. Un ex sindacalista, Gaetano Sateriale, lo ha spiegato senza mezzi termini: “Quello che noi chiamiamo in genere transizione (energetica, ambientale, ecologica, digitale) è in realtà una riconversione del sistema produttivo che riguarda il prodotto finale, le tecnologie impiegate, le competenze, l’organizzazione del lavoro, le conseguenze di quelle attività sul territorio”. Una considerazione che è facile tradurre in esempi concreti, a partire da quello che si manifesta come un vero e proprio dramma, con l’impossibilità di trovare una soluzione alla vertenza della ex Ilva di Taranto. Ma è una questione che risulta lampante anche dall’analisi degli ultimi dati sul mercato del lavoro.
Il bluff del governo Meloni sta per essere infatti svelato, ed è un doppio trucco. Da una parte, la destra ha potuto vivere di rendita, nei suoi primi mesi di vita, per l’effetto “elastico” del mercato del lavoro. Dopo il blocco della pandemia, l’economia ha cercato di reagire, e anche grazie agli aiuti di Stato le aziende hanno ricominciato ad assumere, con il settore turistico e della ristorazione alla testa della ripresa. L’aumento dei posti di lavoro (anche a tempo indeterminato), non è stato il frutto di scelte lungimiranti o di leggi varate dai meloniani per rendere più stabile l’occupazione. Si è trattato, appunto, di una reazione, di un rimbalzo automatico del sistema produttivo, che però ora mostra il fiato corto, come la nazionale agli europei.
Gli ultimi dati sull’occupazione sono considerati un campanello d’allarme. Crescono, infatti, le ore di cassa integrazione, diminuiscono di nuovo i posti di lavoro stabili, e cresce il numero dei neet, giovani che non lavorano e non studiano. Dopo mesi di aumento, il numero di occupati è tornato a calare di 17mila unità, come ha reso noto l’Istat. Il tasso di disoccupazione è stabile, al 6,8%, ma sono in crescita gli inattivi, tra cui gli scoraggiati. Più ombre che luci per i giovanissimi, con il tasso di disoccupazione degli under 25 risalito al 20,5%: il che ci colloca in fondo alle classifiche internazionali e distanti anni luce dalla Germania. Il trucco consiste, dunque, nell’attribuirsi meriti che non esistono, e nel parlare al popolo di un sistema che funziona, quando invece siamo prossimi alla resa dei conti.
Ci sono sempre più aziende in crisi non tanto (o non solo) a causa delle debolezze dei mercati o per effetto della competizione mondiale dei cinesi, quanto per le ricadute delle varie transizioni (ristrutturazioni) in corso. Lo sviluppo impetuoso della tecnologia, sempre più guidata dall’intelligenza artificiale, crea effetti a catena che non vanno demonizzati, ma andrebbero appunto governati all’interno di piani strategici, di nuove forme di conflitto e di un’idea generale di Paese. Lo si capisce anche dal fatto che i tavoli di crisi attualmente aperti presso il ministero sono tutti legati al tema della ristrutturazione.
Ma nessuno sembra avere un’idea su cosa fare, e si preferisce divertirsi sulle banalizzazioni relative all’avvento dell’intelligenza artificiale. Ci si nasconde dietro la paura dei robot e degli algoritmi: invece di elaborare un’idea di cambiamento sostenibile, il dibattito si incanala tra chi è a favore e chi è contro l’introduzione del tappo inamovibile sulle bottiglie di plastica. Il dibattito sul futuro ridotto a macchietta, tra un Salvini che si fa interprete delle proteste degli utenti della plastica, che trovano scomodo attaccarsi alla bottiglia, e un Calenda che invita ad accettare la novità. Tutte macchiette, visto che, da oggi, la regola del tappo è legge anche in Italia, con l’applicazione della direttiva europea. Una misura introdotta per tentare una seppur limitata salvaguardia della natura, limitando la dispersione di milioni di tappi sulle spiagge e nei prati.
Se si è a favore della direttiva sui tappi solidali si è radical chic? Se si vuole discutere una riconversione sostenibile per l’Ilva affrontando tutte le questioni che riguardano la salute dei lavoratori e dei cittadini si è radical chic? Senza perdersi in chiacchiere, la sinistra dovrebbe cominciare a rispondere non tanto alle provocazioni ma alle questioni di merito, schierandosi dalla parte del cambiamento e della difesa reale dei diritti civili e sociali, che, a quanto pare, erano stati relegati nelle teche del Quarto stato. Se vogliamo avere una qualche speranza per il futuro bisogna smetterla di banalizzare i problemi, criticando magari i giovani ingenui che scendono in piazza per la difesa del pianeta. Si tratta di fare delle scelte di politica industriale e di governo dell’economia, magari anche scomode. I risultati non si ottengono con i talk show. Come vediamo dall’esempio spagnolo, dove il governo del socialista Pedro Sánchez, pur con tutti i suoi difetti, invece di chiacchierare, è riuscito almeno a far scendere il tasso di disoccupazione del Paese, che era uno dei più alti in Europa.