
Cominciamo col dire che non è affatto vero che le destre abbiano vinto le elezioni europee, e che gli accordi di potere dei partiti della “maggioranza Ursula” per escludere i sovranisti stiano tradendo le aspettative degli elettori (quasi un colpo di Stato, per Matteo Salvini): i due gruppi politici di estrema destra al parlamento europeo hanno avuto un innegabile successo, ma insieme arrivano appena al 20%, qualcosa di più se si calcola una parte dei non iscritti (6,25%), che comprendono la tedesca Afd. Anche la pretesa di diversi esponenti del Ppe, a cominciare dal presidente Manfred Weber, di dettare le condizioni e il programma agli alleati, perché i popolari hanno vinto le elezioni e il nuovo parlamento “è di centrodestra”, trascura un dettaglio essenziale: che il Ppe, da solo, ha il 26,11%, ed essere il primo partito non significa avere automaticamente la maggioranza, soprattutto con un sistema perfettamente proporzionale com’è quello del voto europeo.
La maggioranza europeista nel parlamento europeo ha retto, ed è quindi normale che si appresti a garantire, con accordi, compromessi e alleanze, la stabilità politica dell’Assemblea per la nuova legislatura. È questa la logica politica democratica che ha determinato le decisioni del Consiglio europeo, approvate poco prima della mezzanotte del 27 giugno, sui nuovi vertici istituzionali dell’Unione. Una sola certezza emerge, per ora, dall’accordo dei capi di Stato e di governo dei Ventisette: l’ex primo ministro socialista portoghese, Antonio Costa, sarà il nuovo presidente del Consiglio europeo. Il successore di Charles Michel entrerà in carica il primo dicembre, ed eserciterà il suo mandato almeno fino al giugno 2027. La sua nomina non è soggetta al voto del parlamento, anche se non è possibile prevedere fin da ora se sarà riconfermato per l’altra metà della legislatura, com’è successo per tutti i suoi predecessori, perché, nel frattempo, potrebbero cambiare gli equilibri politici in seno allo stesso Consiglio europeo, a cominciare dalle elezioni nazionali francesi, e poi da quelle austriache in autunno.
Diversa è la situazione di Ursula von der Leyen, designata dal Consiglio europeo per un secondo mandato alla guida della Commissione, e per la premier liberale estone Kaja Kallas, che sarà confermata come Alto rappresentante per la politica estera comune solo dopo il voto di fiducia del parlamento al nuovo esecutivo comunitario, in autunno. Ma, innanzitutto, von der Leyen dovrà ottenere la maggioranza assoluta (361 voti) con scrutinio segreto dalla plenaria di Strasburgo del parlamento europeo, il 18 luglio. Sulla carta, l’attuale presidente della Commissione dispone di una maggioranza più che sufficiente, 399 voti, se si contano tutti quelli degli eurodeputati dei tre gruppi che ufficialmente la sostengono: Ppe (189 seggi), socialisti e democratici (136) e liberali di Renew (74). Ma per capire come il risultato non sia affatto scontato, bisogna considerare il problema dei franchi tiratori, gli eurodeputati che non seguono la disciplina di gruppo e potrebbero decidere il proprio voto in base a orientamenti personali o nazionali: si calcola che possano far mancare tra il 10 e il 15% dei voti attesi per la nuova “maggioranza Ursula”. Basta ricordare quello che è successo l’ultima volta, nel 2019, quando la stessa von der Leyen passò la barra della maggioranza assoluta per soli nove voti in più, nonostante anche allora potesse contare, teoricamente, sull’ampia maggioranza di quegli stessi tre gruppi. Ci furono i voti contrari dei socialisti tedeschi e anche di una parte degli eurodeputati del Ppe, a cui non era andata giù la bocciatura del loro Spitzenkandidat, Manfred Weber, da parte del Consiglio europeo, su impulso del presidente francese Macron. Von der Leyen passò solo grazie al voto favorevole del Movimento 5 Stelle (14 voti) e del partito della destra polacca Pis (26 voti). L’operazione riuscì grazie alle telefonate agli eurodeputati del Pis da parte dell’allora cancelliera tedesca, Angela Merkel.
Questa volta il Pis (20 seggi) voterà sicuramente contro von der Leyen, che, come ha annunciato, non intende chiedere l’appoggio di europarlamentari che non siano “pro-europei, pro-Ucraina e pro-Stato di diritto”. Queste tre condizioni, per l’attuale presidente della Commissione, sono rispettate invece dal partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia (24 seggi), che fa parte dello stesso gruppo del Pis, quello dei conservatori e riformisti (Ecr).
Il fatto che la premier italiana, presidente del partito europeo Ecr, si sia astenuta al voto su von der Leyen in Consiglio europeo può essere interpretato in due diversi modi: come un segnale di indisponibilità verso la maggioranza di centrosinistra che sostiene il secondo mandato della presidente della Commissione, in linea con le posizioni della destra al parlamento europeo (come dimostra anche il voto contrario di Meloni al socialista Costa e alla liberale Kallas); oppure come una mossa tattica per evitare di mettere in imbarazzo la stessa von der Leyen, rispetto alle due componenti della sua maggioranza, socialisti e liberali, che hanno posto come condizione, per il loro appoggio, la chiusura verso accordi con qualunque partito di destra, senza fare alcuna differenza tra l’Ecr e l’estrema destra del gruppo Identità e democrazia. Le due interpretazioni, apparentemente opposte, non sono però necessariamente alternative.
D’altra parte, von der Leyen ha sempre la possibilità di chiedere voti ai verdi (54 seggi), che si sono già detti disponibili ad appoggiarla. Ma a una condizione: che il programma della nuova Commissione europea preveda esplicitamente una conferma del Green Deal, e non la marcia indietro, almeno parziale, chiesta a gran voce dalla maggioranza del Ppe e da una parte dei liberali di Renew, e già messa in atto nell’ultimo anno. Per von der Leyen, che dovrà presentare a grandi linee il suo programma prima del voto di Strasburgo, il sentiero è molto stretto e anche minato: chiedendo i voti a una parte dei sovranisti dell’Ecr, potrebbe perdere il sostegno di socialisti e liberali; d’altra parte, rispondendo alle aspettative dei verdi, per integrarli nella maggioranza, rischierebbe non solo di alienarsi l’eventuale appoggio (fin qui del tutto ipotetico) degli eurodeputati della destra conservatrice, che lei considera moderati, ma anche di creare malcontento in una buona parte del suo Ppe, che, sulla critica al “fondamentalismo ambientalista”, ha costruito il suo successo elettorale. Dopo l’eliminazione, già attuata negli ultimi mesi, della “condizionalità ambientale” dagli aiuti della Politica agricola comune, dopo il ritiro del regolamento che avrebbe dimezzato l’uso dei pesticidi (bocciato dal voto del parlamento), e dopo i tentativi più o meno riusciti di annacquare altre normative ambientali, la maggioranza dei popolari si aspetta che, con la nuova legislatura, siano rimessi in discussione altri pilastri del Green Deal, in particolare la fine programmata della filiera industriale del motore a combustione interna, con l’obbligo di produrre dal 2035 solo veicoli a zero emissioni.
Un capitolo a parte è poi quello che si aprirà più tardi, con le grandi manovre e la probabile scomposizione e ricomposizione delle destre nel parlamento. Le elezioni europee hanno avviato una dinamica che potrebbe vedere la nascita di un nuovo gruppo formato da partiti sovranisti dei Paesi dell’Est, sponsorizzato dal premier ungherese Viktor Orbán con il suo Fidesz (10 eurodeputati), in cui potrebbe confluire anche il Pis polacco (la sua uscita dall’Ecr è un’eventualità che viene data al 50% dagli stessi dirigenti del partito). È possibile che nasca anche un altro gruppo di destra, con posizioni ancora più estreme dell’attuale Identità e democrazia, che graviterebbe attorno all’Afd (Alternative für Deutschland), diventato alle europee il secondo partito tedesco (17 eurodeputati) e avviato a rafforzarsi ancora di più alle elezioni di settembre nei Länder di Sassonia, Turingia e Brandeburgo. Ma soprattutto, la forte crescita del Rassemblement national di Marine Le Pen (30 eurodeputati), e l’eventuale sua vittoria alle elezioni francesi, potrebbero portare a una sua convergenza con l’Ecr di Meloni. Dopo il voto di Strasburgo su von der Leyen, e una volta ottenuto per il commissario italiano un portafogli “di rilievo”, con una vicepresidenza della Commissione, per la premier italiana potrebbe aprirsi una nuova prospettiva politica, con un’alleanza tra Fratelli d’Italia e Rn, che costituirebbe un forte polo di attrazione per le destre europee e, al tempo stesso, certificherebbe la “melonizzazione” di Le Pen, anche in vista delle elezioni presidenziali francesi del 2027.