Nel 2011, a soli due anni dalla fine del conflitto nella vicina Cecenia, il Daghestan – piccola repubblica caucasica, circa cinquantamila chilometri quadrati e poco più di tre milioni di abitanti – divenne incredibilmente famosa per ragioni calcistiche. La squadra locale della Federazione russa, Anži Machačkala, riuscì infatti a ingaggiare il calciatore camerunense Samuel Eto’o Fils per la cifra di venticinque milioni di euro, facendo diventare l’allora campione africano, oggi dirigente sportivo, il calciatore più pagato al mondo. Questo tentativo di trasformare il Daghestan in un Paese “normale”, dove le partite si guardano come altrove, era parte di un piano finalizzato a strappare i giovani da tentazioni estremiste e fondamentaliste. Chi si era impegnato economicamente in questa direzione era stato l’uomo d’affari russo Suleiman Kerimov, grazie al quale furono costruiti stadi e campi da calcio per impedire ai ragazzi di “andare nella foresta”, ovvero di unirsi a quelle formazioni armate presenti in particolare nelle zone più remote del Paese.
Ma il tentativo è fallito, e dunque, a oltre un decennio di distanza, non è certo lo sport il tema prevalente a Machačkala e dintorni. Ricordiamo, infatti, che lunedì 24 giugno un commando di estremisti islamici ha aperto il fuoco contro la sinagoga Kele-Numaz e contro due chiese ortodosse nella capitale e nella città di Derbent, provocando una ventina di vittime, tra le quali anchel’arcipreteNikolai Kotelnikov. Tra gli assalitori uccisi, due figli e un nipote del presidente del distretto daghestano di Sergokala e segretario della sezione locale di Russia unita (la formazione di Putin), Magomed Omarov, immediatamente arrestato ed espulso dal partito. Il peggiore massacro dall’assalto al Crocus City Hall di Mosca, del marzo scorso, che provocò la morte di 145 persone e il ferimento di 180.
Questo nuovo atto di violenza si inserisce in un quadro da tempo problematico, a causa del fondamentalismo islamico che scosse la regione già dalla fine dell’Unione sovietica e, successivamente, con la guerra in Cecenia, sviluppatasi in due fasi diverse: la prima dal 1994 al 1996, con la nascita della Repubblica cecena d’Ichkeria, e la seconda dal 1999 al 2009, quando i russi riuscirono a riconquistare i territori occupati dalle milizie islamiche con un conflitto che provocò decine di migliaia di morti tra civili e militari, e che, inevitabilmente, coinvolse anche il Daghestan, dove poi l’insofferenza della maggioranza islamica è venuta aumentando fino a sfociare in esplosioni di rabbia contro Israele, come nell’ottobre scorso, quando un aereo proveniente dallo Stato ebraico fu preso d’assalto da una folla che sventolava le bandiere della Palestina.
Anche se le autorità russe minimizzano questi episodi, o ne attribuiscono la responsabilità all’Ucraina e agli Stati Uniti, la storica quanto problematica presenza dell’estremismo islamico nella Federazione rende simili attacchi prevedibili, ponendo inevitabilmente degli interrogativi sull’efficienza dei servizi di Mosca.“Anche se può verosimilmente imbarazzare il Cremlino – dice Aldo Ferrari, ricercatore capo presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) sulla Russia, il Caucaso e l’Asia centrale – la matrice islamista degli attacchi in Daghestan, considerati gli obiettivi degli aggressori, una sinagoga e due chiese ortodosse, sembra essere poco discutibile, in una regione storicamente instabile e a lungo focolaio di violenza jihadista”.
Il Daghestan è una repubblica autonoma, e comprende più di trenta gruppi etnici – per la maggior parte di origine caucasica come gli avàri, i più numerosi (circa un quarto della popolazione), o turca, con consistenti minoranze russe, azere e cecene –, e con una popolazione di poco superiore ai tre milioni di abitanti, le cui lingue, durante il periodo sovietico, vennero riconosciute al fine di evitare movimenti autonomisti, sebbene in un secondo momento sia stato poi il russo a prevalere sugli altri idiomi. Tutto questo in un contesto dominato da seguaci di un islam – 90% della popolazione – via via sempre più preso alla lettera, di tendenza wahabita; mentre il restante 10% è composto da ebrei e cristiani ortodossi. Questo piccolo Stato è situato a cavallo tra l’Europa e l’Asia, bagnato dal Mar Nero e dal Caspio, da sempre sotto il controllo russo, in un primo momento da parte dell’impero, poi dell’Unione sovietica, e infine della Federazione di Putin.
Malgrado le smanie calcistiche, che lascerebbero pensare a una disponibilità di risorse, il Daghestan è la quartultima regione più povera della Federazione, con un Pil pro capite che, nel 2022, era di tremila euro (quello generale della Russia è di poco superiore ai novemila, e quello delle regioni di Mosca e Pietroburgo è oltre i ventimila). Per combattere la povertà a nulla serve la presenza di importanti risorse naturali, come il petrolio e il gas. Se la convivenza tra etnie e gruppi religiosi diversi era più o meno garantita fino alla fine dell’Urss, successivamente questo delicato equilibrio è venuto meno, e, oltre alla ritrovata tensione tra i gruppi etnici, è aumentata la corruzione. La parte principale l’ha fatta, e la sta facendo, la criminalità organizzata. Secondo quanto riportato dalla testata online “Il Post ”, “l’International Crisis Group (un centro studi che si occupa di risoluzione dei conflitti) scrive che, in anni recenti, il 2011 è stato il più violento in termini di scontri tra i gruppi jihadisti e le forze di sicurezza in Daghestan: furono uccise quattrocento persone. In seguito, c’è stato un periodo di maggiore tranquillità. Tra le ragioni – prosegue “Il Post” – secondo quanto ricostruito dall’International Crisis Group, ci fu sia un aumento della repressione da parte delle autorità locali, incoraggiate dal governo russo, sia i più ampi movimenti del jihadismo di quegli anni. Nel 2015 le cellule jihadiste della regione giurarono fedeltà all’Isis, e quindi molti miliziani, facilitati dalle autorità locali a lasciare la regione, partirono per il Medio Oriente”.
Per combattere il fondamentalismo, il governo procede ad arresti e processi arbitrari, chiusure di moschee sospettate di ospitare fondamentalisti e – fino al 2017 – c’era anche uno speciale “registro di sospetti estremisti”, il cui numero era arrivato a superare le diecimila unità. Chi ne faceva parte era oggetto di continui controlli da parte delle autorità. Dopo il 2017, questo registro sarebbe stato eliminato, ma, secondo l’International Crisis Group, avrebbe solo cambiato nome. Stando a molti osservatori, il Daghestan è il Paese più pericoloso d’Europa, anche se questa appare quanto meno una forzatura. Secondo un reportage della Bbc, oltre a scontri e combattimenti, gli estremisti prendono di mira le attività commerciali che vendono alcol, con avvertimenti ai proprietari che subiscono pesantissime ritorsioni evitabili con il pagamento del “pizzo”.
Contro questo stato di cose nulla possono polizia ed esercito, i cui membri indossano spesso maschere per non essere riconosciuti. A poco serve il tentativo di Rizvan Kurbanov, il vice primo ministro del Daghestan, responsabile anche della sicurezza, a capo di una commissione istituita per convincere i combattenti ad abbandonare la lotta armata e a ritornare alle loro famiglie. Anche queste ultime sono state coinvolte nella complicata operazione di pacificazione, in cambio di gesti di clemenza; ma questi tentativi non hanno portato quasi a nulla. A chi giova la recrudescenza dello scontro tra il governo russo e il fondamentalismo? Ai nemici di Putin – Ucraina in testa – che punterebbero a un suo indebolimento, oppure allo stesso capo del Cremlino intorno a cui i russi andranno sempre più stringendosi? Più probabile la seconda ipotesi. Aggiungiamo che la vasta galassia islamista è un nemico comune sia della Russia sia dell’Occidente; ma una possibile alleanza, che potrebbe contribuire a riaprire un dialogo tra gli attori in campo, è al momento, com’è noto, altamente improbabile.