È ridicola, o per meglio dire grottesca, l’agiografia di Silvio Berlusconi che si tenta di fare. È soprattutto il gruppo Mondadori, guidato dalla figlia e neo-cavaliera Marina, che si sta impegnando nella beatificazione del padre Silvio. La notizia non di una semplice collezione di libri ma addirittura di un nuovo marchio editoriale – all’interno di quell’azienda oligopolistica, a suo tempo truffaldinamente acquisita (vedi qui) –, intitolato a Silvio Berlusconi e dedicato al “pensiero liberale”, fa venire in mente il “liberalismo alle vongole” di cui parlavano i collaboratori del “Mondo”, la vecchia rivista di Mario Pannunzio. Il primo titolo in uscita sarà un testo di Tony Blair, che in effetti con il liberismo in senso economico, più che con il liberalismo come posizione politica, un rapporto ce l’ha.
Ma Berlusconi non fu mai un liberale, non fu nemmeno un neoliberista – se a questo termine diamo il suo giusto significato, cioè quello di un’economia e di un’iniziativa privata che intenderebbero svincolarsi dal ruolo dello Stato, riducendo quest’ultimo a un “minimo”. Non lo fu anzitutto nella costruzione del suo impero mediatico, cresciuto (a parte le possibili collusioni con la mafia, che gli avrebbe prestato i capitali iniziali) grazie alle protezioni governative del Caf (l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani), che all’epoca gli permise di concentrare nelle sue mani la metà del mercato televisivo del Paese. Non lo fu nel momento del passaggio al berlusconismo politico, in cui l’intuizione – la sua “formula”, si potrebbe dire – consisté nello sdoganamento dell’estrema destra neofascista, prontamente ribattezzata postfascista, e in un’alleanza con il populismo regionalistico della Lega di Bossi.
Non lo fu, ancora di più, nello stile della comunicazione politica, consistente in roboanti promesse elettorali che si avvalevano dello strombazzamento consentitogli dal possesso delle televisioni (ciò che fu detto il “neopopulismo mediatico”), e in quello organizzativo di un “partito azienda”, marcatamente personalistico, ricalcato all’inizio sulla pubblicitaria Publitalia, che ha visto il suo primo congresso solo dopo la morte del capo. Non lo fu, in linea generale, per l’egemonia (qui è il caso di usare questa parola) che ha impresso nell’intera società italiana: non quella di un liberalismo borghese, ma quella di un pressapochismo dedito all’evasione del fisco (non si dimentichi la sua condanna per frode fiscale), e poi del tipico colpo al cerchio e uno alla botte per quanto concerne gli anni di attività governativa, i quali, a parte il riflesso condizionato contro la magistratura, furono sempre caratterizzati da un sostanziale immobilismo.
Non fu un liberale Berlusconi neanche in tema di diritti civili. Non si dica il matrimonio gay, ma neppure un più semplice “patto di convivenza” per le coppie non sposate fu mai varato dai suoi governi. E si ricordi il caso di Luana Englaro, giovane donna in coma permanente da diciassette anni a seguito di un incidente, che Berlusconi presidente del Consiglio considerava ancora in grado di fare figli, e a cui quindi per lui non si doveva staccare la spina. Tutto questo, poi, neppure per un convincimento personale, solo per un trasparente opportunismo nei confronti della Chiesa cattolica e della componente integralista della sua maggioranza.
Non fu un liberale Berlusconi nell’episodio della compravendita dei parlamentari, per distruggere la maggioranza di centrosinistra e andare così a elezioni anticipate (nel 2008). Del resto non lo era nemmeno in tema di diritti delle donne, che trattava da semplici prostitute anche quando le portava a ricoprire incarichi pubblici. La sua morale può essere riassunta, infatti, in una sola frase: tutto si può comprare.
In conclusione, si può avere rispetto per i liberali, quelli veri. Non per il berlusconismo.