Un insieme di fattori ha concorso alla felice conclusione della brutale detenzione di Julian Assange. Il suo spettro si aggirava nelle stanze di un indebolito Biden, che ha preferito liberarsene in vista delle elezioni; papa Francesco ha fatto molto, la sua diplomazia si è mossa bene e da lungo tempo; quelli che hanno gridato lo slogan free Assange hanno poi determinato il posizionamento dell’opinione pubblica internazionale, che ha vinto sulla retorica del potere.
Il giornalista australiano, tra poco cinquantatreenne, con l’iniziativa di pubblicare carte segrete sulle attività sporche e criminali del Dipartimento di Stato e del Pentagono, ha intrapreso, suo malgrado, una durissima partita con l’establishment imperiale, messo in difficoltà, smascherato se non “sputtanato”, da una libera attività informativa: di qui l’invocazione contro di lui dell’Espionage Act del 1917, draconiana misura sul controspionaggio, che non era mai stata applicata, neanche ai tempi dei Pentagon Papers, che denunciarono le criminali malefatte della guerra nel Vietnam. Guerra che si sapeva persa, e perciò si lasciò correre, dando la prevalenza al famoso primo emendamento della Costituzione americana.
Con Assange, le cose sono andate diversamente. Il potere imperiale è nel mezzo di una sua battaglia di dominio, e dunque contro il giornalista si è scatenata una persecuzione giudiziaria durata dodici anni. Sul “Foglio” Giuliano Ferrara si è fatto portavoce degli odiatori di Assange: lui, come Edward Snowden e Chelsea Manning, che hanno fornito i documenti supersegreti, sarebbero “dei ficcanaso che odiano il nostro modo di vivere”, e avrebbero perfino “contribuito al successo di The Donald diffondendo la mail di Hillary Clinton in campagna elettorale per conto dei russi”: frasi così, in fin dei conti condivise da larga parte del mondo liberal, che ha sempre mal sopportato chi spiattella i segreti di Stato.
La lista degli amici di Ferrara è lunga, non comprendendo solo Gianni Riotta o Federico Rampini, ma anche l’ex direttore di “Domani” Stefano Feltri, secondo il quale la liberazione di Assange dimostra che non era un martire ma un equivoco. I “chierici” del potere sono sempre all’opera per attaccare chi lo mette in discussione. Assange, con il suo modo un po’ da avventuriero e di sicuro intransigente, insieme con i suoi circa trenta collaboratori più stretti, ha fatto la scelta di divulgare tutto ciò di cui veniva in possesso, una massa di informazione al cui centro, inequivocabilmente, c’erano i crimini di guerra in Afghanistan e in Iraq, per i quali non si è mossa nessuna Corte penale internazionale, solerte invece verso altri lidi.
Un po’ alla maniera di un Mordechai Vanunu – il tecnico nucleare israeliano che, nel 1986, denunciò le autorità di Tel Aviv per il possesso dell’arma atomica, sempre negato, andando così incontro a un durissimo destino di carcerazione e segregazione –, Assange non ha voluto mediare nulla riguardo alla gravità dei crimini commessi: proprio questa intransigenza è un capo d’accusa per chi preferisce schierarsi sempre e comunque con il potere.
Ma i “chierici” hanno convinto solo se stessi e i loro amici (tra cui molte importanti testate che avevano attinto a quattro mani dalle carte pubblicate da Assange!), se l’opinione pubblica internazionale è invece scesa in piazza a più riprese per chiedere la liberazione del giornalista. Il suo team legale ha optato per una mediazione: egli si è dichiarato colpevole per non andare negli Stati Uniti, dove la carcerazione gli sarebbe stata fatale, provato già da questi duri anni di detenzione. Una trattativa necessaria, che ci ricorda come la sfida non sia affatto vinta: Assange è libero, non così la stampa.