Chiunque abbia avuto modo di frequentare la Francia, negli ultimi dieci o quindici anni, si sarà accorto che a caratterizzarne il razzismo contemporaneo non è l’antisemitismo, che pure è tuttora presente nel Paese dell’affare Dreyfus, ma l’islamofobia o, si potrebbe dire, la magrebinofobia. Le ragioni sono chiare. Si pensi ai mortiferi attentati di Parigi del 13 novembre 2015, che ebbero il loro epicentro nel teatro Bataclan, o a quello del 7 gennaio dello stesso anno contro la sede della rivista “Charlie Hebdo”. Queste azioni furono condotte da cellule dell’islamismo più estremista, in parte francesi, in parte provenienti dal Belgio. Non va dimenticato il contesto internazionale: l’esplosione della guerra civile in Siria, la costituzione del gruppo jihadista denominato Stato islamico, che per una fase controllava una parte di territorio presentandosi, ad alcuni sostenitori dell’islam radicale, come l’embrione di quel califfato mondiale cui aspirerebbero. Per quanto a noi possa sembrare strano, c’è un afflato utopico-messianico nelle gesta degli attentatori jihadisti.
Ma non c’è solo questo, naturalmente. Alle spalle troviamo la questione delle banlieues, cioè il rapporto mai veramente risolto della Francia con la sua storia coloniale. Nel 2005 i giovani delle periferie di alcune città francesi si ribellarono, dando vita per un mese intero a violente proteste, le cosiddette “notti dei fuochi”. All’origine, un paio di ragazzi morti, rifugiatisi in una cabina dell’alta tensione per sfuggire a un controllo di polizia. E a un’altra rivolta abbiamo assistito l’anno scorso (vedi qui) dopo l’omicidio di un giovane senza patente che non si era fermato a un posto di blocco. Sono moti spontanei, privi di un’ideologia precisa. Ma quanti di quegli stessi che ieri si sono ribellati a un omicidio di polizia non diventeranno, domani, militanti o simpatizzanti jihadisti?
Tutto ciò conduce, quasi per un riflesso condizionato, a una reazione contro i musulmani, i banlieuesards e i magrebini, che ne sono la maggioranza, spesso discendenti di immigrati algerini. L’astuzia di Marine Le Pen è stata quella (a differenza di suo padre, vecchio arnese fascista antisemita) di ri-orientare per così dire il razzismo, facendo dell’immigrazione, anche mediante la pseudoteoria della “sostituzione etnica”, il nocciolo dell’intero suo programma politico, sintetizzabile nello slogan “prima i francesi”. È un fenomeno cui si assiste sul piano mondiale: le destre estreme, anche quelle uscite dal neofascismo (e che continuano ad avere la fiamma come simbolo), si riciclano come forze politiche nazionaliste o nazional-populistiche, per far leva sulla paura che viene dall’inquietudine provocata dalla dura vicenda postcoloniale. Oggi il lepenismo è il primo partito francese perché ha compiuto questo passaggio. Si pensi che il “cacciatore di nazisti” Serge Klarsfeld – un avvocato ebreo ultraottantenne, che ha svolto un ruolo importante nei processi contro criminali come Klaus Barbie e altri – si è dichiarato pronto a votare per il Rassemblement national perché questo non è più antisemita, mentre il cartello delle sinistre, che ha al suo interno Mélenchon, lo sarebbe.
Arriviamo così al problema dell’attuale campagna elettorale in Francia. Mélenchon non è affatto antisemita, ma non è stato abbastanza previdente da evitare di apparire tale. Tutto comincia con il feroce attacco del 7 ottobre da parte di Hamas. Mélenchon è consapevole del fatto che il suo “populismo di sinistra”, se così vogliamo chiamarlo, ha una base elettorale nelle banlieues. E si dà, senza remore, ad attaccare Israele per i suoi massacri a Gaza, finendo col considerare Hamas un movimento di resistenza palestinese come un altro. Ciò non solo non è vero, perché Hamas – a differenza dei gruppi palestinesi del passato, anche molto radicali – è una forza politica a sfondo teocratico che, almeno per il momento, non accetta la soluzione “due popoli due Stati”; ma soprattutto è politicamente controproducente, perché consente agli avversari di fare del fondatore della France insoumise un antisemita. È strumentalmente molto sporco lo slogan, risuonato pochi giorni fa a Parigi, in una piazza macroniano-centrista – Mélenchon en prison! –, nel corso di una manifestazione di sdegno per un episodio di violenza sessuale ai danni di una ragazzina ebrea da parte di alcuni suoi coetanei: questi sì, a quanto pare, con una motivazione antisemita.
L’intera campagna elettorale macroniana, del resto, si sta orientando contro la sinistra. Almeno per il primo turno, quando per il blocco centrista (insieme con il partito di Macron ci sono altri due gruppi minori) si tratta di arrivare, nei diversi collegi uninominali, al più alto numero di ballottaggi possibile, o, quando è il caso, di portare al secondo turno un candidato della destra moderata (quella cioè che non si è schierata con il lepenismo) che da sempre Macron cerca di attirare nel suo campo.
Stando così le cose, appare inevitabile una maggioranza di estrema destra nella prossima Assemblea nazionale. Tutto sta a vedere se sarà assoluta o, com’è più probabile, relativa. Ma Macron ha già fatto la sua scelta: preferisce una “coabitazione” con il delfino di Marine Le Pen, il giovane Bardella, a un governo con le sinistre (o con una parte di esse). Così, dall’alto della sua presunzione, potrà presentarsi – lui, lui solo – come quel bastione contro il lepenismo che finora non è riuscito a essere con le sue politiche che hanno stancato i francesi.