Nel novembre 2022, alcuni attivisti lanciano oggetti incendiari nel cortile della sede della Leonardo s.p.a. a Palermo. È notte: tutti i dipendenti sono a casa, nessuno viene coinvolto. L’autodenuncia avviene quando Antudo, un gruppo siciliano per l’autogoverno, pubblica un video: si vedono un paio di oggetti volare, una breve fiammata, poi più nulla. Gli attivisti si allontanano velocemente. La protesta mirava a denunciare l’uso delle armi prodotte dalla Leonardo (partecipata al 33% dallo Stato) nell’etnocidio dei curdi da parte di Erdogan in Turchia. A marzo scorso, nonostante non ci siano stati danni, per alcuni attivisti sono scattate le misure cautelari. Luigi Spera, un vigile del fuoco, è stato incarcerato con l’accusa di terrorismo. Oggi è recluso nel carcere di Alessandria, nella sezione di alta sorveglianza, regime di alta sicurezza 2 (As2), riservata ai detenuti condannati per reati di terrorismo.
Il pubblico ministero ha chiesto la custodia cautelare per reato incendiario a scopo terroristico (riferito all’art. 280 c.p.), con l’aggiunta di arma molotov considerata da guerra (art. 270 c.p.). Essendo state spiegate in un comunicato da Spera, con un’altra attivista, le ragioni dell’atto dimostrativo, il pm ha contestato anche l’istigazione a delinquere con finalità sovversive (art. 414 c.p., comma 4). “Un atto terroristico deve creare intimidazione o costrizione reale nei minacciati. Una fiammata notturna senza danni sostanziali è chiaramente dimostrativa” ha dichiarato l’avvocato difensore di Spera, Bisagna. “Pensare che Leonardo, la settima azienda produttrice di armi al mondo, possa essere influenzata da una minaccia del genere è improbabile”.
In casi simili, come nel caso delle proteste contro la linea Tav in Val di Susa, la Cassazione ha respinto l’accusa di terrorismo. Analoga decisione nel 2021, quando fu lanciata una molotov contro un centro vaccinale a Brescia, nell’ambito delle proteste “no vax”. L’avvocato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, ma l’esito è incerto. Nel frattempo, Spera rimane in cella con la prospettiva di un lungo periodo di detenzione, dato che per i reati di terrorismo i termini di custodia cautelare sono raddoppiati.
L’episodio ricorda, nelle intenzioni, le azioni dei portuali di Genova, che a più riprese, nel 2023 e all’inizio del 2024 (vedi qui), si sono opposti alla vendita di armi a Israele, bloccando un carico di navi e protestando contro l’uso di armi fabbricate in Italia e utilizzate nei conflitti in Medio Oriente. “Non vogliamo essere complici della guerra”, sostenevano i gruppi riuniti del Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp), del sindacato Usb e del SiCobas. Se esportare e consentire il transito di armamenti verso zone di guerra è vietato dalla legge 185 del 1990, e dal trattato internazionale sulle armi convenzionali, secondo il Weapon Watch “molti grandi gruppi stranieri, in particolare americani, hanno aperto filiali in Italia che a loro volta esportano materiale militare verso destinazioni terze, in maniera opaca e difficilmente tracciabile”.
Intanto, il governo Meloni si prepara a snaturare la legge 185 del 1990, che prevede, tra le altre cose, la pubblicazione di una relazione annuale al parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima relazione contenente tutti gli elementi che hanno permesso sino a oggi di dare conto all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi riguardanti il nostro Paese.
In molti appoggiano il provvedimento, per esempio alcuni istituti di credito. Nella relazione si riportano, infatti, le liste di banche che hanno rapporti con gli investimenti in ambito bellico. Tutti gli interlocutori coinvolti preferirebbero condurre, nella segretezza, affari che condizionano pesantemente la politica estera dei Paesi e accordi economici che sostengono le guerre in corso, chiudendo gli occhi davanti alla violazione sistematica dei trattati sulla protezione umanitaria delle popolazioni civili.
Senza appiccare fuochi, ma con la forza della società civile, la Rete italiana Pace Disarmo, e varie altre associazioni, si sono mobilitate per contrastare le nuove misure. Secondo il loro comunicato, eliminare il controllo sull’export di armi vuol dire mettere nelle mani di pochi potenti, spesso in conflitto di interessi, scelte determinanti per il futuro del Paese e del pianeta. Perciò le organizzazioni hanno lanciato una campagna per fermare lo svuotamento della legge 185/90, chiedendo una maggiore supervisione da parte degli organi dello Stato. La campagna – “Basta favori ai mercanti di armi” – propone diversi emendamenti, mirati a migliorare la regolamentazione e la trasparenza nel commercio di armamenti. Uno degli obiettivi principali è impedire al governo di cancellare dalla relazione annuale al parlamento i dettagli sull’interazione tra banche e aziende militari.
Tra le proposte, c’è la reintroduzione del Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd). Questo comitato dovrebbe diventare un luogo di responsabilità politica, dove le decisioni sull’export di armi siano bilanciate da analisi tecniche fornite dagli uffici della presidenza del Consiglio, del ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale, e del ministero della Difesa. Inoltre, il Cisd dovrebbe poter ricevere informazioni sul rispetto dei diritti umani da organizzazioni riconosciute dall’Onu, dall’Unione europea e dalle Ong.
Altro punto cruciale della campagna è l’inserimento del Trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty), una convenzione di respiro internazionale, nelle norme italiane. Il Trattato, in vigore dal 2014, garantisce che le esportazioni di armi rispettino standard globali di diritti umani e sicurezza. La rete di associazioni chiede, inoltre, un miglioramento nella trasparenza e nella comunicazione dei dati, con informazioni più dettagliate, complete e leggibili. Attraverso queste proposte, si mira a fermare gli affari che alimentano guerre e insicurezza, e a promuovere una politica estera più etica e responsabile.
Sospettato di avere lanciato una molotov di notte senza causare danni a persone o cose, Luigi Spera, un pompiere che ha appiccato un fuoco per denunciare la complicità del nostro governo in azioni militari illecite, è intanto in una cella di pochi metri quadrati da dividere con un altro detenuto. Mentre chi ha davvero la possibilità di decidere su un commercio volto alla distruzione altrui, non sarà più controllato, sfuggendo ancor più all’occhio critico dell’opinione pubblica.