È terribile. Nelle ultime quarantott’ore, tra venerdì e sabato, quattro persone si sono tolte la vita nelle carceri di Ariano Irpino, Biella, Sassari e Teramo. Da nord a sud del Paese la disperazione dei senza speranze ha portato finora quarantaquattro detenuti a togliersi la vita dall’inizio dell’anno, gesto estremo di protesta per le condizioni inumane in cui vivono. Amaro il commento dell’associazione Antigone, che si occupa delle persone private della libertà: “Se in una città di sessantamila abitanti si suicidassero quarantaquattro persone in pochi mesi, non parleremmo che di questi. E invece…”.
E invece c’è un muro di silenzio. E invece, scoraggiato e allibito l’avvocato calabrese Giancarlo Liberati, racconta: “Due miei assisti si sono suicidati dall’inizio dell’anno e un terzo si è salvato grazie all’intervento dei suoi compagni di cella. Quello che preoccupa è la rinuncia delle autorità carcerarie a garantire i diritti costituzionali dei detenuti, come il diritto alla salute. Nella casa circondariale ‘Arghillà’ di Reggio Calabria, hanno sospeso la terapia farmacologica per i malati di hiv, che ormai vivono in promiscuità con gli altri detenuti”.
Il governo Meloni risponde al disagio nelle carceri con la creazione di reparti di pronto intervento per domare le rivolte (vedi qui). Samuele Ciambriello (vedi qui) è il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti dei detenuti. Ciambriello ha appena spedito ai media un grido d’allarme disperato: “I suicidi negli istituti penitenziari sono il prodotto sia della lontananza della politica sia della società civile dal carcere. E anche della mancanza di figure sociosanitarie di ascolto negli istituti, considerando che chi si suicida o tenta il suicidio, nella maggior parte dei casi, sono coloro da poco tempo entrati in carcere”.
Anche la risposta “securitaria” del governo Meloni non convince Ciambriello: “Criminalizzare forme di resistenza dei detenuti (anche solo tre di loro) come il rifiuto del cibo o il mancato rientro dall’ora d’aria, è per certi versi paradossale. Uno Stato che ricorre con troppa disinvoltura alla sanzione penale e alla repressione non è uno Stato forte ma uno Stato debole. Uno Stato forte è capace di intercettare il disagio sociale e di adottare le misure sociali più opportune a tutela della dignità di tutte le persone, anche e soprattutto in carcere”.
Sono passati ormai tre mesi dall’appello – “Servono interventi urgenti per il sovraffollamento e i suicidi nelle carceri” – con cui il presidente della Repubblica invitava “la classe politica del nostro Paese ad adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza del personale e dall’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria”. “Con grande preoccupazione, constatiamo, ancora una volta, la sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei detenuti, rispetto al peggioramento delle condizioni di vivibilità delle nostre carceri che, lungi dal consentire quell’inveramento del volto costituzionale della pena, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei ed internazionali, su cui regge lo Stato di diritto e a umiliare continuamente la dignità umana delle persone ristrette”.
Insomma, c’è bisogno di una task force legislativa, di “medicamenti” per lenire le ferite di una condizione terribile in cui vivono oltre 61mila persone detenute, a fronte di una capienza di 51.178 posti (dati ufficiali al 31 marzo 2024). Secondo la Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà, bisogna subito discutere e approvare in parlamento “misure deflattive del sovraffollamento, facilmente applicabili, come quella contenuta nella proposta dell’onorevole Giachetti quale primo firmatario, volta a modificare l’istituto della liberazione anticipata e a prevedere uno sconto di ulteriori trenta giorni a semestre per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 a oggi (30+45)”. La matematica non è un’opinione. Le pulsioni autoritarie di questo governo portano a un aumento delle pene per nuovi reati, al carcere per la popolazione giovanile che consuma le cosiddette droghe leggere. Le proposte umanitarie della Conferenza nazionale dei garanti dei detenuti vanno a cozzare contro questa brutta aria che si respira. Le carceri potrebbero svuotarsi se si applicassero le misure alternative alla detenzione già praticabili. “Al 10 giugno 2024 sono 23.443 le persone con un residuo pena al di sotto dei tre anni, di cui 7.954 con un residuo pena al di sotto di un anno; sono 1.529 i detenuti che hanno una pena inflitta da un mese a un anno”.
L’umanizzazione delle carceri è stata una grande utopia, si è cercato di farla diventare realtà alla fine del secolo scorso. Oggi c’è una sentenza della Corte costituzionale “scientificamente inapplicata”. Spiega Ciambriello: “È fondamentale, far sì che il carcere cessi di essere quel luogo di ‘desertificazione affettiva’, dando immediatamente seguito alla decisione della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario che vieta in carcere lo svolgimento di incontri affettivi intimi e riservati. La decisone n.10 del 2024, infatti, dimostra come la tutela del diritto inviolabile a coltivare i propri affetti non può arrestarsi innanzi a un ‘blindo’ di una cella, che non è (né può diventare) un confine, a suo modo, per la legalità costituzionale o un confino per la dignità umana delle persone” (vedi qui).
Un ruolo importante potrebbe svolgerlo la magistratura di sorveglianza, aumentando, per esempio, i giorni di permesso premio per i ristretti. E la politica dovrebbe poi farsi carico, in modo mirato, dei problemi legati al crescente disagio psichico negli istituti penitenziari. Particolare attenzione va riservata, infatti, alle persone con dipendenze, che, al 10 giugno 2024, risultano essere 17.405 nelle carceri italiane, e per le quali le esigenze riabilitative non prevalgono quasi mai sulle ragioni securitarie. Risulta necessario incrementare per loro le misure alternative in comunità terapeutiche, e anche ai detenuti stranieri (presenti in 19.304 al 10 giugno), che faticano più degli altri a vedere tutelati i propri diritti fondamentali all’interno del carcere, va garantito l’“accesso a prestazioni socio-assistenziali”.