
Lo scorso 8 marzo, sfilavano per le vie di Buenos Aires i fazzoletti verdi del gruppo Ni una menos in difesa dell’aborto legale, sicuro e gratuito per tutte, contro la decisione del governo Milei di cancellare la legge sull’interruzione di gravidanza. Al presidente, che considera il commercio di organi “un mercato come un altro” e l’aborto un abominio, la posizione della donna libera di gestire il proprio corpo appare pericolosa. Definendo la pratica dell’aborto come un “omicidio aggravato dal legame di parentela”, il presidente argentino aveva risposto allo sciopero minacciando di scontare il giorno di paga alle dipendenti pubbliche, e annunciando il cambio del nome della storica “Sala delle donne” della Casa Rosada in “Sala degli eroi dell’indipendenza”. Ma non è finita qui. Milei ha deciso di chiudere il ministero delle Donne, del Genere e delle Diversità, non certo per motivazioni economiche, quanto per una scelta ideologica.
Il governo ultraliberista aveva già declassato il ministero a sottosegretariato, tagliandone i fondi e riducendone funzioni e personale. Inoltre, nei primi centottanta giorni del suo mandato, Milei ha eliminato il linguaggio inclusivo dai testi della pubblica amministrazione, e sta attuando una politica analoga riguardo ai libri scolastici e universitari. La chiusura del ministero avviene in un contesto drammatico: in Argentina, si verifica un femminicidio ogni trentacinque ore. Nel 2023, 273 donne sono state uccise da partner o ex partner violenti. Negli ultimi dieci anni, sono 2.446 le donne assassinate da uomini. I numeri mostrano un’emergenza che richiederebbe attenzione e interventi concreti per l’educazione sessuo-affettiva e di genere. Il governo dovrebbe finanziare la nascita di più centri antiviolenza, e pensare a misure che facciano sentire le donne sicure.
Al contrario, l’attenzione del presidente è rivolta agli uomini, cresciuti a pane e machismo, che non si ritrovano più in un mondo in cui le donne iniziano ad avere potere. Alla base di queste scelte c’è quindi una strategia precisa, la stessa di Bolsonaro in Brasile, di Trump negli Stati Uniti: Milei vuole distinguersi dai suoi avversari politici, in particolare dai peronisti, cercando di guadagnare consensi tra le nuove generazioni, soprattutto tra i giovani uomini. L’intenzione sembra essere quella di farli sentire compresi anche in caso di atteggiamenti discutibili verso le donne. Come i suoi compari, anche Milei sta negando le misure per tutelare il divario retributivo di genere; si è opposto all’educazione sessuale nelle scuole e ha ridotto i programmi assistenziali legati alle politiche di genere. L’intenzione è inoltre quella di modificare la Legge Micaela del 2018 – chiamata così in nome di Micaela García, una giovane uccisa nel 2017 –, che prevede la formazione obbligatoria sulle questioni di genere per tutti i dipendenti pubblici. Una norma voluta fortemente dal movimento Ni una menos. Anche all’interno della cosiddetta “legge omnibus” (vedi qui), l’iniziativa del presidente nasconde un provvedimento discriminatorio. La riforma elettorale, infatti, abolirebbe le primarie simultanee obbligatorie (Paso) e modificherebbe il sistema di elezione dei deputati, eliminando le quote di genere. Si ridurrebbero così significativamente le donne in politica, almeno quelle che non siano scelte personalmente nelle urne.
I movimenti femministi hanno denunciato che le politiche di Milei riportano indietro di decenni la lotta contro il sessismo. Marta Dillon, giornalista e attivista, ha descritto le azioni di Milei come una deliberata battuta d’arresto contro i diritti delle donne, e contro quelli conquistati dai movimenti transfemministi e antirazzisti. Come lei, altre giornaliste argentine, che si occupano di questioni di genere, hanno riferito di un aumento delle minacce personali, di una crescente caccia alle streghe da parte dell’estrema destra.
Ma le proteste non riguardano unicamente le questioni legate al genere. Infatti, nel movimento femminista, c’è anche la volontà di battersi contro la politica di tagli alla spesa pubblica promossa dal leader ultraliberista (o, come lui si autodefinisce, anarco-capitalista). Mercoledì 12 giugno, ci sono stati scontri a Buenos Aires tra polizia e manifestanti contro la “legge base” voluta dal presidente. Migliaia di persone hanno protestato davanti al parlamento, dove in Senato si discuteva la legge, poi passata grazie al voto decisivo della vicepresidente Victoria Villarruel. Tagli ai sussidi statali, privatizzazione di circa quaranta aziende statali (sebbene alla alla fine, però, solo di otto), aumento delle pene per le manifestazioni non autorizzate, trasferimento di poteri dal parlamento al presidente in caso di “emergenza pubblica”: questi i provvedimenti contenuti nel disegno di legge.
Il movimento Ni una menos era nato nel 2015 come risposta all’ondata di femminicidi e violenza di genere. Dall’omicidio di Chiara Páez, una giovane di 14 anni incinta di due mesi anni uccisa dal fidanzato, una marea viola e verde si era alzata nel Paese. Le donne, con marce e manifestazioni di massa, avevano cominciato a svolgere un ruolo significativo nel promuovere leggi e politiche a tutela delle donne. L’uomo d’affari machista trovava così la sua nemesi nel solidarismo femminile, nei gruppi di donne riunite per formare una solidarietà forte, creando alternative comunitarie all’individualismo. Il movimento si è poi esteso a livello globale, con gruppi che ne hanno acquisito le pratiche contestualizzandole alla realtà dei propri Paesi. Anche in Italia molte manifestazioni contro la violenza sulle donne sono state organizzate dal collettivo femminista Non una di meno, nato sull’onda argentina.
Le associazioni per i diritti umani – tra cui Amnesty International, il Centro studi giuridici e sociali e le Fondazioni Fundar e Fundeps – hanno duramente criticato le decisioni di Milei, dichiarando che esse minano l’obbligo dei governi alla protezione delle donne. Lo Stato argentino, infatti, aveva storicamente adottato politiche per affrontare la violenza di genere nel quadro degli accordi internazionali. La chiusura del ministero delle Donne è un enorme passo indietro nella lotta contro la violenza di genere, con ripercussioni significative in un Paese già fortemente colpito da fenomeni discriminatori.