Che Italia è quella che trionfa agli europei di atletica, con i suoi campioni arcobaleno, che testimoniano di un meticciato di talenti e capacità che si abbracciano fra loro? E come si rispecchia la cultura dell’inclusione e della solidarietà nel Paese che qualche ora prima aveva dato modo al governo reazionario di festeggiare con una conferma dei consensi? Non sono domande frivole o strampalate. Lo sport è parte costitutiva del senso comune. Vedere in uno stadio, attorniati da decine di migliaia di tifosi, dinanzi alle massime cariche dello Stato, decine e decine di giovani uomini e donne – non uno o due, come pure era capitato in passato, ma pressoché l’intera squadra che andrà a rappresentare il Bel Paese alle prossime olimpiadi a Parigi – rappresentare visivamente i mille incroci e le combinazioni etniche che fanno vivere la nostra comunità, dà il senso compiuto di una maturazione sociale e culturale, che non accetta più distinguo fra chi è italiano a pieno titolo e chi deve sudare per ambire a esserlo. Ebbene, questa realtà è apparsa separata, distinta, se non proprio contrapposta, a quanto usciva dalle urne. Ma cosa ci ha veramente detto il voto?
Come sempre, le analisi che seguono alle battute e ai commenti a caldo hanno dato una lettura meno univoca su chi ha perso e chi ha vinto. Intanto, l’astensione. Una maggioranza assoluta del Paese che, consapevolmente, ha rifiutato la scheda. La sua distribuzione è stata forse l’unico dato unificante della popolazione. I non votanti si sono ritrovati a tutte le latitudini geoculturali e sociali, dove si è ormai consolidato questo modo di parlare al potere, manifestando estraneità e separazione.
Se guardiamo invece i votanti, i dati di massima sono quelli declamati in queste ore dalle società di rilevazione d’opinione. Anche qui sarebbe utile una riflessione. Forse abbiamo accettato con troppa indifferenza questa centralità dei sondaggisti, che prima influenzano il voto amplificando le tendenze e tracciando quei trend che si autoalimentano, e poi confermano che i propri sondaggi sono veri con estrapolazioni di diverso tipo. Anche qui, come aveva anticipato trent’anni fa Paul Virilio, il filosofo della velocità, nel suo saggio La bomba atomica, dall’auspicio della democrazia diretta arriviamo piuttosto a una democrazia automatica, in cui “l’assenza di deliberazione sarebbe compensata da un automatismo sociale, simile a quello del sondaggio d’opinione o alla misurazione dell’audience televisivo”. Questa latitanza di processi deliberativi partecipati, sostituiti da artificiose tecniche predittive, sta automatizzando la democrazia, in cui il rapporto di causa ed effetto fra previsione e comportamento elettorale viene poi ulteriormente distorto dalle forme di interferenze digitali, che toccano milioni e milioni di elettori, radicalizzando il loro voto.
Se questi sono i contesti, vediamo qual è stato il testo finale della consultazione. Due elementi di cornice: il centro moderato rimane un fantasma inafferrabile, mentre la sinistra radicale, grazie soprattutto alle intuizioni di Sinistra italiana e dei verdi, è tornata a interrogare la politica italiana. Ma il busillis principale riguarda le due signore dello scacchiere politico: Elly e Giorgia.
Meloni vince a mani basse, si strilla ovunque, benché la presidente del Consiglio abbia perso per strada più di 700mila voti rispetto all’exploit delle politiche di neanche due anni fa. Se torniamo alle considerazioni sull’astensionismo, potremmo vedere come questo dato assoluto non sia esorcizzabile: 700mila cittadini, che avevano scelto Fratelli d’Italia, oggi, dopo la prima fase dell’esperienza di governo, hanno deciso di esprimersi altrimenti. Contemporaneamente, abbiamo visto un altro disinvolto cambio di taxi da parte del tessuto proprietario e speculativo nazionale che oggi – dopo Berlusconi e Salvini – prova appunto con la premier.
Astensioni consapevoli e volubilità del voto del Nord danno un combinato disposto che un partito d’opposizione dovrebbe cogliere e approfondire. Ma il Pd ora sembra ebbro di un’euforia, giustificata solo da alcuni infausti presagi paventati dal Nazareno. Le liste di Schlein hanno raccolto oltre 200mila voti in più delle politiche, registrando una chiara inversione di tendenza. Il partito, sollecitato, ha risposto dislocandosi nel Paese. Ma in quale direzione e con quali proposte?
Le candidature organizzate dalla giovane segreteria, raccolta intorno alla giovane segretaria, hanno espresso un mix funzionale. Al Nord rimane una fredda corrispondenza con i territori più produttivi e manifatturieri, mentre è caldo il legame con le grandi città, e di queste con le aree di maggiore densità professionale e intellettuale; il mosaico fra determinate personalità – come Cecilia Strada, con una forte identità di lotta per l’inclusione e la pace – ha risucchiato aree che si erano astenute nelle elezioni precedenti, diciamo i giovani di oggi e quelli di ieri più sconsolati per l’appiattimento del partito sulla governabilità. La macchina emiliana del presidente Bonaccini ha integrato e ottimizzato un network di amministratori che ha riconquistato aree che sembravano sguarnite, come nei triangoli dei distretti emiliano e veneto e nei centri urbani lombardi, guidati dalla leadership progressista di Milano.
Un’impronta in cui non si può non riconoscere la matrice del nuovo gruppo dirigente, diciamo un loro tocco da Sardine evolute e più mature, anche se appare evidente, proprio per questa impronta, la persistente incomunicabilità con il pulviscolo produttivo caratterizzato dalle piccole e medie aziende delle province lombarde. Com’è possibile che si vinca ormai da anni a Brescia, Bergamo, Varese, e invece, appena fuori dalle cerchie urbane, si venga superati drasticamente non solo dal radicamento della Lega, ma anche dall’infatuazione recente per il partito di provenienza neofascista di Meloni.
Cosa vogliono queste figure di proprietari – e anche di tecnici e dipendenti – che vedono solo nella propria impresa l’affermazione del proprio ruolo sociale? Non hanno fatto grandi fatturati, con largo ricorso all’evasione fiscale anche con Draghi? E con Renzi non avevano isolato il sindacato? O invece la partita è tutta europea, e queste corporazioni produttive chiedono in realtà un’Europa leggera, quasi assente, che non ponga limiti e tanto meno controlli?
Di conseguenza, una sinistra di opposizione può solo predicare l’europeismo ed esibire la sua osservanza a Bruxelles, o non deve invece andare oltre quella pletora di burocrati reclamando una strategia che compensi le limitazioni fiscali e contributive, con un sostegno forte alle imprese europee anche sui mercati più avanzati, arricchendo, con modelli comportamentali innovativi, la capacità di queste aziende di esplorare altre opzioni (pensiamo alle forme collaborative che, nei distretti o nell’open source, hanno dato lustro al nostro artigianato)?
Al Centro e al Sud i risultati del Pd parlano un’altra lingua: i mediatori prevalgono sui contenuti, e il partito è diventato un incubatore di cordate. Tanto è vero che le performance maggiori hanno tutte nomi e cognomi: Nardella, l’ex sindaco di Firenze diventato il testimonial di una nuova intesa fra spezzoni delle vecchie correnti, così come l’ex sindaco di Pesaro, Ricci, che a Roma ha fatto corsa da solo, preferenza secca contro tutti, all’ombra del correntone del sindaco e dei suoi colonnelli. Tanto che perfino uno zar delle preferenze come Zingaretti ha dovuto accostare nella corsia d’emergenza mentre sfrecciavano le cordate. Nel Sud il quadro è ancora più marcato: l’école barisienne di De Caro ha imposto la sua legge, oscurando ogni altra ambizione. Annunziata, giornalista ed ex presidente della Rai, che pure si è battuta con la solita grinta, o la Picierno – parlamentare uscente –, sono state surclassate dal mezzo milione di preferenze raccolte dall’ex sindaco del capoluogo pugliese, che ha doppiato la stessa segretaria, la cui candidatura, più che trainante, è stata trainata nel gioco delle accoppiate. Non diversamente è andata nelle isole.
In sostanza, vediamo un voto tonificante, sicuramente, che lascia però sul terreno tutte le incognite di una mappatura del partito ancora intricata e levantina. I cacicchi sono in piedi, da De Luca, con il suo candidato bandiera Topo, a Emiliano, inabissatosi al momento per non eccitare le polemiche del pre-voto, ai singoli capibastone, che hanno fatto valere la propria influenza a Roma.
Ora, però, si tratta di rispondere alla domanda iniziale: quale Italia ha in mente la sinistra democratica? Quel Paese solidale e inclusivo, che potrebbe vincere non solo nell’atletica, come lo cerca e lo mobilita? Con quale forma partito può affrontare la relazione fra deliberazione e automatismo predittivo? E infine – in un’Europa che potrebbe, dopo il voto francese, scarrocciare più marcatamente a destra – come costruire reticoli e relazioni con quella sinistra comunitaria – Spagna, Portogallo, ma anche le resuscitate socialdemocrazie svedese e olandese – che non può più essere il garante della continuità burocratica dell’Unione, ma deve dare uno scossone a un albero che sta marcendo.
Sono i temi su cui conterà molto come si discuterà più ancora di che cosa si discuterà. Il nodo del partito e della dinamica dei gruppi dirigenti va messo sul tavolo ora, per parlare a quella metà del Paese che al momento ha detto anche al governo “no grazie”.