Il dato incontrovertibile, in Europa, è che il temuto sfondamento da parte delle destre estreme non si è realizzato; c’è stata una loro forte progressione, non tale però da mettere in questione gli equilibri consolidati da decenni. Il vincitore della partita è il Partito popolare europeo, che vede aumentare i propri seggi nell’ordine di una decina. I socialisti e democratici perdono solo due seggi. C’è invece un calo dei liberali, per via della netta sconfitta dei macroniani francesi, e anche dei verdi. È comunque numericamente e politicamente immaginabile, nel prossimo parlamento europeo, una maggioranza analoga a quella attuale. Non un risultato brillante, soprattutto se si pensa alla tendenza sempre più destrorsa dei centristi – a come da ultimo, per esempio, abbiano teso ad anestetizzare le scelte europee più coraggiose, in particolare riguardo al Green Deal –, ma si può vedere il bicchiere mezzo pieno e perfino rallegrarsi per avere tenuto, se non altro, le posizioni.
A uno sguardo più ravvicinato, il Psoe di Sánchez e il Pd di Schlein diventano le componenti determinanti (con la non trascurabile ripresa della socialdemocrazia svedese) della tenuta del socialismo europeo, che vede sì il crollo della Spd ma, al tempo stesso, il parziale recupero dei socialisti francesi. Le correnti meridionali più di sinistra, appunto quelle spagnola e italiana, sono diventate essenziali per arrestare l’onda nera. È anzitutto un’indicazione di metodo: bisogna partire da strette alleanze con le componenti più radicali – in Spagna Podemos, in Italia verdi e sinistra, che arrivano molto vicini al 7% – per poi allargare il campo e costruire un’alternativa alle destre.
Nel nostro Paese, come previsto, non è ancora cominciato il declino elettorale della coalizione delle destre: Meloni può cantare vittoria. Resta però il fatto che le opposizioni, nel loro insieme (e la cosa era del resto già evidente dal risultato delle politiche del 2022), sarebbero in grado di battersi ad armi pari: basterebbe che trovassero una piattaforma d’intesa comune. Pesa soprattutto sul capo di Conte il crollo subito dai 5 Stelle. È la riprova, a nostro parere, che non paga, in termini elettorali, lo scatenamento di una forte competitività all’interno di uno schieramento potenzialmente alternativo. Inoltre, l’astensionismo (in ulteriore crescita rispetto al 2022: non si è arrivati nemmeno alla metà dei votanti) avrà fatto la sua parte, penalizzando una formazione come quella proveniente dall’antipolitica grillina che, fino a non molto tempo fa, pescava sia a destra sia a sinistra.
Si può dire che si sia verificata una vittoria dei partiti più strutturati sul territorio. Tanto Fratelli d’Italia quanto il Partito democratico hanno infatti una lunga storia di militanza alle spalle. Viene da lontano anche il successo dell’Alleanza verdi-sinistra. Non raggiungono la soglia del 4%, invece, i gruppi centristi autolesionisti privi di un radicamento nel Paese che non sia quello di personalità egotistiche e autoreferenziali.
Il rebus delle alleanze politiche a sinistra in Italia resta un rebus, dopo questa tornata elettorale; ma senza il “campo largo” non si va da nessuna parte. Se i 5 Stelle fossero un gruppo “riflessivo”, dovrebbero prendere atto della completa inconsistenza dei loro attacchi al partito maggiore della possibile coalizione. Tuttavia non siamo affatto sicuri che giungano a rendersi conto, a breve, della decisiva importanza di una politica più unitaria.