Il nostro titolo avrebbe potuto essere: “E ancora una volta la volgarità vince!”, ripreso da una scena di Sogni d’oro, terzo lavoro di Nanni Moretti, grande regista di idee. Il film è del 1981, il ciclo vacanziero, sfociato nella lunga stagione dei cinepanettoni, avrà il suo esordio solo un anno dopo, con il fatale Sapore di mare dei Vanzina. La morale dell’episodio morettiano nel film è che la volgarità vince sempre presso un pubblico che, già allora, sembrava diventare allergico alla dialettica e all’oratoria civile. Appare incredibilmente profetica l’accusa mossa dall’allora trentenne regista romano nei confronti di una società spettatrice, che si andava abituando alla fruizione di contenuti sempre più triviali.
Da tempo, ormai, l’autorità non ama presentarsi con linguaggi, forme e ritualità adeguate. E merita una certa attenzione la china che è stata presa, perché qualcosa, di sicuro, è andato storto. Sono stata insultata e banalmente mi sono difesa – spiega al “Corriere” la presidente del Consiglio. La storia riguarda l’incontro di Caivano fra Meloni e De Luca, segnato dall’appellativo “quella stronza”. La premier ha scelto la tribuna di Caivano, preferendo evitare di andare a Brescia dove si commemoravano i cinquant’anni dalla strage – di matrice fascista – di piazza della Loggia, e dove lei sarebbe stata fischiata. Ma se c’è il cinquantesimo anniversario di una strage, non vai a inaugurare un parco.
Il linguaggio usato da Meloni è la sintesi di una triste storia. L’uso della volgarità, con intento denigratorio, è diventato una caratteristica del linguaggio politico soprattutto nell’ultimo decennio. Cosa ci racconta questo linguaggio? Una classe dirigente vendicativa, e tanto disprezzo per i titoli di studio. Nella politica, ma non solo, sembra che esista oggi un unico modo per ottenere giustizia: vendicarsi. Lui mi ha offesa, io mi sono difesa. È il livello dei bambini alle scuole elementari. Ma alle elementari va ancora bene, molto meno se ricopri una carica istituzionale.
Siamo ritornati alla legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Se mi hai danneggiato, devo poter rispondere causandoti un danno commisurato a quello che mi hai inflitto. Sembra di trovarsi di fronte all’esaltazione della legge del più forte, quella dell’homo homini lupus di Hobbes. La vendetta, d’altronde, è sempre il frutto di una cultura dell’onore. E la vendetta affascina.
Ma c’è un altro aspetto che preoccupa. La presidente del Consiglio è orgogliosa della strada percorsa e del ruolo che occupa, nonostante non si sia laureata. Anche se non si condividono né i suoi valori né le sue idee né le sue battaglie, né il suo comportamento (soprattutto questo), si può ammirare la sua determinazione. Però quale tipo di messaggio si dà ai più giovani quando si dice che si può arrivare ovunque senza le condizioni di partenza che qualcuno ha potuto avere? Una laurea non è, di per sé, una finalità. Ciò che più conta è il percorso che si fa per ottenerla. Nessuno diventa adulto isolato dal contesto in cui cresce, senza esempi o modelli da seguire. Dispiace e indigna che questa classe politica abbia disprezzo per la formazione e la cultura. Vi è un continuo scontro tra élite e popolo, tra alto e basso. Ma non abbiamo bisogno di una lotta di classe tra chi ha studiato molto per farsi avanti e chi ci è riuscito per altre vie.
Non si tratta di opporre i diplomi alla vita. Lo studio ha il merito di aprire la mente. È ovvio che una laurea non garantisce la capacità di affrontare qualunque sfida. La complessità del mondo attuale richiede la presenza di tante e diversificate competenze. C’è bisogno di capacità tecniche e manuali, ma anche di sguardi larghi e lunghi, di porre, al momento giusto, domande complesse. C’è bisogno di conoscere i classici, ma anche di chi, senza averli letti, ha una mente fervida. Ricordo le parole di Umberto Eco: essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andarle a trovare. E, per sapere dove andare a trovare ciò di cui si ha bisogno, una laurea serve.
Infine, vale la pena ricordare che la lingua genera mondi. Non si limita a indicarli, li costruisce. Le parole sono “architettrici”: creano spazi. Da come parli si evince che mondo hai in mente. Come lo pensi, come lo vuoi costruire. Certo, puntare a un modello di eguaglianza verso l’alto, al grado dieci e non al grado zero della conoscenza, costa più fatica. Studiare, difatti, costa fatica.
Cosa scegliere? Darsi dello stronzo a vicenda e vincere le elezioni, o usare una dialettica, e talvolta persino un congiuntivo, e perderle? La parolaccia, si sa, genera consenso. Sono cambiati i tempi, potrebbe obiettare qualcuno. Vero: non sarà una scurrilità a turbarci o la mancanza di un titolo di studio a mutare la valutazione sulle scelte di un rappresentante nelle istituzioni. Eppure, l’impressione di qualcosa di stonato rimane. La forma è sostanza.