E così, dopo cinque anni di indagini e sette settimane di processo, è arrivata la sentenza. Una giuria popolare di Manhattan ha riconosciuto Donald Trump colpevole di avere falsificato i documenti contabili delle sue aziende, al fine di tacitare una pornostar con cui aveva avuto una relazione sessuale e impedire che lo scandalo potesse influenzare negativamente la sua campagna elettorale del 2016. Non era scontato che i dodici giurati decidessero all’unanimità (necessaria per un verdetto di colpevolezza) su tutti i trentaquattro capi di accusa. Non era scontato perché, per quanto i fatti fossero in sé acclarati dalle prove documentali e dalle testimonianze, la legge dello Stato di New York prevede che questo tipo di reati sia punito a contravvenzione; eccetto quando il reato viene commesso per commetterne un altro ben più grave: l’indebita interferenza nel corretto svolgimento delle elezioni, che era in effetti il fine di tutta l’operazione messa in atto da Trump e dai suoi uomini di mano.
Cosa succede adesso? Nel sistema di common law americano la giuria giudica la colpevolezza dell’imputato e il giudice determina la pena. Il giudice in questione, John Merchan, ha annunciato che stabilirà la pena l’11 luglio prossimo, una settimana prima di quando, nella convention repubblicana di Milwaukee, Donald Trump sarà ufficialmente nominato candidato alla carica di presidente degli Stati Uniti alle elezioni del 5 novembre. A discrezione del giudice, la pena potrà andare da un massimo di quattro anni di carcere a un minimo della libertà condizionale. Se il giudice dovesse stabilire il carcere, si aprirebbero scenari senza precedenti perché la legge federale prevede che un ex presidente, e candidato alla presidenza, sia sempre scortato dal servizio segreto (la guardia di sicurezza presidenziale), che dovrebbe quindi essere alloggiato in qualche locale della prigione accanto al detenuto. Naturalmente, è vietato portare armi in carcere, ma in questo caso agli agenti di scorta sarebbe consentito. Il giudice potrebbe anche, in considerazione dell’età avanzata del condannato (77 anni), disporre che la pena sia scontata presso il suo domicilio, e anche in questo caso dovrebbe essere accompagnato dal secret service.
Il minimo della pena, la libertà dietro cauzione (libertà condizionale), non sarebbe comunque privo di risvolti imbarazzanti per un ex presidente. Trump sarebbe obbligato a presentarsi settimanalmente davanti a un funzionario dei servizi sociali di Manhattan per dimostrare che si sta comportando da buon cittadino, che ha un lavoro, non si droga e non frequenta personaggi equivoci, insomma che ha iniziato un percorso di rieducazione.
C’è poi la questione del voto. Né la Costituzione né la legge federale vietano che un condannato (felon) concorra a una carica elettiva (è successo una sola volta, nel 1920, quando Eugene Debbs, lo storico leader socialista in carcere per essersi opposto all’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, si candidò alla presidenza, e naturalmente non fu eletto). Anche Trump, seppure condannato, dal carcere o in libertà, potrà candidarsi. Altra cosa è se potrà esercitare il diritto di voto. Qui entrano in gioco leggi che sono diverse da Stato a Stato. In Florida, dove Trump ha la residenza, non è consentito a un pregiudicato di votare se non dopo che ha scontato la pena. (E, sia detto per inciso, nel sistema penale americano, a differenza di quello italiano, si è colpevoli fin dalla prima condanna). Perché Trump possa votare, presumibilmente per se stesso, dovrebbe avere una dispensa dal governatore, che si chiama Ron DeSantis, è stato un suo fiero avversario durante le primarie, ma ora lo appoggia incondizionatamente.
Questa la complicatissima vicenda giudiziaria che si è appena conclusa con una sentenza di primo grado, ma che, com’è noto, non è la sola. Ci sono altri tre processi penali che attendono l’ex presidente: uno, a livello statale, in Georgia, per avere cercato di corrompere nel 2020 i funzionari elettorali perché gli “trovassero” qualche migliaio di voti in più; un altro, a livello federale, per la sottrazione delle carte top secret nascoste nella sua residenza di Mar-A-Lago; e l’ultimo, sempre federale, per il suo ruolo nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, in cui, secondo l’accusa, ha incitato la folla all’insurrezione al fine di bloccare la conferma dell’elezione di Biden da parte del Congresso. Sono reati gravi, che prevedono dozzine di anni di carcere, ma grazie alle tecniche dilatorie dei suoi avvocati (e di qualche giudice compiacente) è difficile, anzi ormai impossibile, che vadano a processo prima delle elezioni del 5 novembre. Se Trump poi dovesse vincerle, potrebbe (il sistema lo consente!), con un tratto di penna, cancellare i due processi federali dando istruzioni al suo attorney general (procuratore capo) di ritirare le accuse. Se, per accidente, fosse già stato condannato potrebbe perfino graziare se stesso! Quanto al processo in Georgia, trattandosi di un reato statale, non avrebbe questa facoltà; ma è quasi certo che, anche in caso di condanna, verrebbe graziato dal governatore dello Stato, il repubblicano Brian Kemp.
E l’elettorato, tra pochi mesi chiamato alle urne, che cosa ne pensa? Cosa pensa di un candidato alla presidenza ora condannato per un reato infamante, non tanto in sé (dopotutto la frode in bilancio è un reato comunissimo in tutto il mondo, di cui molti vanno anche fieri), ma per i motivi a un tempo scabrosi ed eversivi per cui è stato commesso? Ancora non sono disponibili sondaggi su come gli elettori abbiano reagito alla condanna; quelli condotti durante il processo presentano un quadro sconfortante. L’elettorato è così profondamente diviso tra seguaci e avversari di Trump che anche le sue vicende giudiziarie vengono viste attraverso la stessa lente di parte: i suoi fans considerano le accuse una montatura e il processo una farsa; i suoi avversari ritengono credibili le accuse e corretto il processo.
Tuttavia, qualcosa sembra muoversi ai bordi dei due schieramenti: altri sondaggi, in precedenza, avevano rilevato un allarmante spostamento di consensi nelle fasce di elettorato tradizionalmente democratico: i neri, gli ispanici, i giovani. Le ragioni di questo scontento sono note: l’inflazione che è scesa, ma ha vanificato l’aumento dei salari; l’immigrazione che ha scontentato tutti, sia chi voleva un atteggiamento più umano da parte dell’amministrazione, sia chi voleva maggiore “severità”; anche in politica estera l’atteggiamento altalenante dell’amministrazione ha scontentato, e sulla guerra a Gaza protesta sia la comunità ebraica sia quella arabo-mussulmana; sopra ogni altra cosa le mancate riforme: della polizia, del porto d’armi, del diritto negato di aborto, del diritto di voto, cui si aggiungono le preoccupazioni per l’età del presidente. Tutto ciò ha creato grande insoddisfazione in una parte dell’elettorato democratico che, anche se non voterà per Trump, potrebbe ugualmente far perdere Biden non andando a votare, particolarmente in quella manciata di Stati dove bastano pochi voti per assegnare la vittoria a un candidato o a un altro.
L’altro fronte, quello repubblicano, sembra al momento impermeabile a ogni ripensamento, tanto più che i leader del Congresso e gli altri notabili del partito si sono schierati, quasi all’unanimità, a favore di Trump, sostenendone le tesi complottiste e difendendone l’innocenza a spada tratta. Lo speaker della camera, Mike Johnson (non un trumpiano della prima ora), è arrivato perfino a organizzare una manifestazione di protesta a favore di Trump davanti al tribunale. Contemporaneamente, appena avuta notizia della condanna, è partita una raccolta di fondi a favore del condannato, che gli ha consentito di recuperare lo svantaggio finanziario che aveva rispetto ai democratici. Ma, per quanto granitico, il fronte favorevole all’ex presidente, dopo la condanna, potrebbe sfarinarsi, soprattutto tra gli indipendenti e tra i repubblicani moderati che non lo amano (ce ne sono ancora, dopotutto), e anche in questo caso, pur non votando per Biden, potrebbero far perdere Trump non andando a votare.
La situazione è quindi al momento di sostanziale pareggio e rimane fluida. Resta lo sgomento di fronte a un Paese di antica democrazia in cui la metà, poco meno o poco più, degli elettori si appresta a votare per un personaggio di cui già si sapeva tutto, ma che è ora anche sancito dal giudizio di una giuria popolare in una corte di giustizia: il candidato alla presidenza di uno dei due maggiori partiti è un truffatore e un eversore. Comunque andranno le elezioni è precisamente questo che costituisce una macchia indelebile per la democrazia americana e per la posizione degli Stati Uniti nel mondo.