Lo stato d’animo prevalente, nella condizione di pre-guerrache stiamo vivendo, è quello di una feroce apatia. Mentre un genocidio quasi dichiarato avviene a opera di un governo razzista a Gaza, mentre una guerra di trincea si combatte al centro dell’Europa, e mentre un altro genocidio appena mascherato si svolge nei mari delle nostre coste per colpa della “democratica” Unione europea, la vita quotidiana procede nella sua apparente, ornamentale banalità. Apatia, passività, indifferenza, certo: ma anche ferocia inconsapevole verso le vittime, che disturbano i nostri sconcertanti dibattiti su Fiorello e Amadeus, sulle auto elettriche o a diesel, sul turismo di massa sempre più disgustoso e ossessivo: l’attivismo vuoto che ricopre il vuoto interiore.
Viviamo, per citare il titolo di un film recente, in una “zona d’interesse” (vedi qui), coltivando i cavoli del nostro giardino, mentre a poca distanza avviene l’orrore. Lentamente, i governanti europei lasciano filtrare nelle loro parole, a dosi omeopatiche, la necessità e l’opportunità della guerra, lentamente rendono pensabile ciò che sembrava impossibile; come Macron, che, non pago dei disastri provocati in Africa, ora si propone come duce guerriero dell’Occidente, presumibilmente per lasciarsi dietro un altro campo di macerie.
Hermann Broch si riferiva al periodo che ha preceduto la Prima guerra mondiale come al trionfo del sonnambulismo e del Kitsch. Governanti sonnambuli come i nostri procedevano verso l’abisso, con vuote ciance sull’onore e il progresso, mentre la sostanza traumatica del tempo veniva nascosta da un eccesso di ornamenti, da uno stile colorato e magniloquente: al suo posto oggi abbiamo l’euforia malata dello spettacolo e dell’estetizzazione, narcotici che ci permettono di continuare a camminare inebetiti verso la violenza prossima ventura. Il borghese (Broch usa ancora questi termini di una lotta di classe oggi politicamente poco corretta) “impone al suo mondo un ordine artificialmente ornamentale e lo trasfigura per poterlo godere, ma solo a patto di nasconderne la miseria. Il gusto decorativo in lui è più ipocrita che nei suoi crudeli predecessori (…). Per il momento, il borghese non è ancora crudele: si sta però preparando a diventarlo”. Queste parole si riferiscono alla borghesia austriaca negli anni che precedono la Prima guerra mondiale. Nella pre-guerra i governanti sonnambuli minacciano, bluffano, mobilitano, sfidano, sempre con la certezza che il nemico a un certo punto si pieghi, per conquistare rendite di posizione in un conflitto virtuale, di cui neppure riescono a immaginare i contorni reali: questi pericolosi teatranti, i loro banchieri, i loro industriali produttori di armi, credono di poter controllare gli eventi partendo da una posizione di forza. E nei popoli inerti resta la convinzione che, tanto, mica quei buffoni faranno sul serio, è tutto teatro, i conflitti verranno circoscritti lontano da noi, noi potremo continuare nella nostra indifferenza vigliacca.
Ma basta poco perché vengano travolti dal caos e dall’imprevedibile: basta che un qualunque Francesco Ferdinando venga ucciso da un qualunque Gavrilo Princip, in una qualunque Sarajevo, perché dalla pre-guerra si passi alla guerra, dalla feroce apatia al furore incontrollabile. Gli “assaggi” verbali di Macron, della von der Leyen, di Michel, in direzione della guerra, vorrebbero assuefarci al pensiero della distruzione. Il gioco al rilancio delle rappresaglie e delle sanzioni sfugge di mano e la violenza mimetica non ha il senso del limite: del resto, nella storia esiste una lunga casistica di provocazioni volute, “lasciate accadere”, o addirittura messe in scena, perché la scintilla iniziale appaia responsabilità del nemico.
In un libro che riprende il titolo del celebre romanzo di Broch, I sonnambuli, conclude lo storico Christopher Clark: “(…) I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo”. Apparentemente i sonnambuli agiscono come in stato di veglia, li si penserebbe capaci di scorgere gli ostacoli e i precipizi lungo i quali camminano: ma in realtà sono mossi da fantasmi traumatici dell’inconscio del collettivo, che sovrastano la loro volontà e la conducono come una marionetta. Il mondo “overturistico” e decorativo in cui viviamo copre a malapena la percezione del vuoto e l’angoscia di una crisi della presenza, in cui è scomparso ogni valore orientativo.
Questa diffusa e inconsapevole depressione ha trovato una prima espressione nel panico e nella paura da Covid, per poi scaricarsi all’esterno in violente contrapposizioni, in cui non contano l’oggetto e i contenuti, di per sé risibili, ma le forme: comune è solo l’odio per l’identità nemica, magari pretestuosa e indefinibile. Ciò che importa, come aveva intuito Freud, è che la pulsione di autodistruzione, rivolta depressivamente contro se stessi, si scarichi al di fuori in aggressione contro un nemico esterno. Perciò, tra l’apatia e il furore, che sembrerebbero opposti, c’è invece una sinistra complementarità: sono la delusione e la frustrazione di un ordine simbolico in irreversibile declino, che produce quell’indefinito e lacerante risentimento che, in un solo battito, può trapassare in odio guerresco, trasformare il fallito “imprenditore di se stesso” in un interventista contro l’altro. È la normalità disgregante del capitalismo che produce l’anormalità della guerra; e se questo è vero a livello economico e sociale, non bisogna sottovalutare il risvolto psichico collettivo di uno stato d’animo che, dalla delusione, tracima in aggressione e accompagna, se non con entusiasmo, con indifferente atonia la sventura.