Si cerca di dare un contesto e un epilogo a quanto è accaduto. Le scuse che il portavoce vaticano ha diffuso a nome di papa Francesco non aiutano in questo : ci si trincera dietro l’immagine dolce del pontefice e si accenna ai suoi nemici più conservatori, ma si continua a lasciare tutto avvolto da una precaria foschia di incertezza – e di equivoco. Sicuramente non è stato un incidente linguistico. Il pontefice è argentino, ma conosce l’italiano meglio di molti nostri connazionali. Tanto più quando, addentrandosi in aspetti poco convenzionali, fa uso di espressioni gergali. Lo shock è quindi assolutamente giustificato. Così come lo sbigottimento di chi al papa aveva affidato le residue speranze di una leadership globale. Pensiamo ai movimenti pacifisti ed ecologisti, alle culture più libertarie, alle comunità cattoliche di frontiera. Un variegato fronte, che vedeva nell’attuale vicario di Cristo un paladino di valori e comportamenti in contrasto con l’ortodossia conservatrice. Ora la doccia fredda per l’uso di un termine crudo e inequivocabilmente sprezzante nei riguardi di una categoria che pure lo stesso pontefice aveva più volte voluto tutelare da ogni forma di discriminazione, o rigetto, da parte della gerarchia ecclesiale.
Allora cos’è successo e perché? L’occasione, per quanto informale, il tradizionale incontro di primavera con i vescovi, era comunque un atto di una certa solennità, con duecento confratelli notoriamente non tutti allineati al nuovo corso di Bergoglio. In questa cornice, il papa ha voluto espressamente soffermarsi su un tema – quello appunto dei gay in seminario – che non è certo inedito. Com’è stato spiegato in queste ore, il problema era stato regolato con una istruzione del 2005 (con papa Benedetto XVI), confermata nel 2016 dallo stesso Francesco, che ha precisato come “la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”. Un divieto, questo, che in realtà non sembra ancora osservato.
Il punto ambiguo di questa posizione, come venne rilevato già al momento della diffusione della norma che impedisce ai gay dichiarati di entrare nelle file del clero, riguarda il fatto che la Chiesa non dovrebbe tanto punire la condizione di omosessualità, quanto impedire il ripetersi di abusi e pratiche violente nei confronti di questi giovani. Proprio questo fenomeno, che tanto imbarazzo provoca in Vaticano, si vorrebbe almeno soffocare, se non estirpare, evitando che vi siano in seminario persone che manifestamente si dichiarano gay o praticano l’omosessualità. Si vorrebbe eliminare la tentazione per ridurre il peccato.
Sul filo di questo delicatissimo e complesso equilibrio – fra una ragion di Stato che vorrebbe non criminalizzare il clero, e una necessità di ridurre drasticamente un’aneddotica sempre più ingiustificabile – è arrivata la battuta del Papa, risuonata come un vero tuono nei silenziosi saloni vaticani. Il termine “frociaggine”, che Bergoglio ha usato scandendone bene le sillabe, per quanto si lascia intendere dalle anodine quanto anonime interpretazioni rilasciate dalle fonti ufficiali, sarebbe stato usato per esecrare la violazione delle norme vaticane invece che per colpire la comunità gay.
Ma inevitabilmente quel termine – carico di tanto simbolismo discriminatorio e denso di umori aggressivi e dispregiativi, indotti da un uso da parte di culture reazionarie – non lascia spazio a nessuna sottigliezza semantica. Intanto, perché con enfasi sembra additare al pubblico ludibrio l’errante più che l’errore, per adottare la storica differenziazione introdotta dal Concilio Vaticano II. E poi perché, inevitabilmente, date l’aura e l’autorevolezza di chi ha parlato, sdogana quel modo di identificare gli omosessuali, rendendoli bersaglio di ogni volgarizzazione caricaturale. Chi potrà mai riprendere un giovane, o ancora peggio un adolescente, che si lasciasse andare a una tale terminologia nei confronti di un conoscente o compagno di scuola?
Torna così il quesito: com’è possibile che proprio un pontefice che ha fatto della tolleranza e comprensione una bandiera senza limiti, tale da inimicarsi settori corposi e potenti delle gerarchie ecclesiali, sia scivolato su un tale termine messo all’indice non solo dalle forme politicamente corrette, ma da un senso comune ormai acquisito in tutto l’Occidente liberale? La domanda rimane sospesa, in gran parte della comunità religiosa, o anche inibita.
Quell’espressione, però, continua ad avere un’eco inquietante. Nulla potrà essere come prima, ci viene da dire. Come faremo a tracciare un confine fra quanto è lecito e quanto invece è inaccettabile nella differenziazione sessuale? Come potremo mettere all’indice culture e pratiche discriminatorie a livello internazionale? Infine, come si potrà addossare ai social la responsabilità di una degenerazione semantica, in cui sia la forma sia i contenuti delle relazioni online trascendono rapidamente, facendo perdere ogni misura nel dialogo?
Persino l’autore dello scoop, “Dagospia”, una testata che certo non figura formalmente fra quelle compulsate dai vescovi, fa intendere come abbia agito chi ha voluto subito rendere irreversibile lo scivolone papale, riducendolo a clamoroso pettegolezzo da piazza. Il modo in cui i quotidiani di destra hanno cavalcato lo scandalo, per azzerare ogni valore progressista dell’azione del pontefice, mostra con chiarezza quali siano gli effetti materiali di tale sbandata.
Come sempre – è il caso di dire – il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Un tale episodio, in cui al vertice del Vaticano si usa una terminologia cosi estrema e dura, spinge ulteriormente in avanti quel processo di secolarizzazione della sacrale figura del vicario di Cristo, e con lui dell’intera autorità della gerarchia della Chiesa, ormai avviato da tempo, riducendo così drasticamente ogni distanza e separazione fra la base e il vertice, persino in un ambito, quello religioso, in cui ancora il potere rimane verticale. Una convergenza, però, che senza un presidio politico e culturale a sinistra, rischia di favorire solo derive populiste, magari condite con il rimpianto di antiche sacralità. Vedremo come si assesterà lo sciame sismico che segue la scossa. Certo è che, da oggi, San Pietro appare zona terremotata.