Come leggere e interpretare i dati che usciranno dalle urne, al di là della prevedibile schermaglia politica e giornalistica che accompagna ogni scadenza elettorale? Cosa bisognerà guardare, per capire come sono andate veramente le cose? Per ragioni di spazio, evitiamo di trattare estesamente il voto nei comuni: sono migliaia quelli interessati, tra cui ventisette capoluoghi di provincia. Due sono i parametri con cui valutare i risultati, limitatamente ai comuni con popolazione superiore ai quindicimila abitanti: il primo, ovviamente, è il numero delle amministrazioni conservate, perse o conquistate dai diversi schieramenti (per un bilancio complessivo occorrerà attendere i ballottaggi, dopo quindici giorni); il secondo, per quanto riguarda la sinistra e il campo delle opposizioni alla destra, un elemento chiave è quello delle coalizioni che si presentano agli elettori. E qui, nonostante tutte le polemiche, vi è un dato significativo: in ventidue città capoluogo su ventisette, si presentano agli elettori varie formule di alleanza che vedono comunque insieme il Pd e il Movimento 5 Stelle.
Sarà interessante verificare, in chiave comparata, il rendimento di queste coalizioni. Tra le cinque eccezioni spiccano, e quindi hanno fatto più clamore, le situazioni delle due maggiori città al voto: Bari e Firenze. Non possiamo qui entrare nei dettagli, ma va ricordato comunque che a Bari, nonostante la rottura intervenuta, è stato sottoscritto una sorta di gentlemen agreement tra i due candidati, che avrebbero dovuto sfidarsi alle primarie, quello sostenuto dal Pd e altre forze minori, e quello (di profilo “civico”) sostenuto dal Movimento 5 Stelle e altre forze di sinistra: l’impegno reciproco è quello di sostenersi in caso di ballottaggio. Tra le sfide da seguire con interesse, c’è anche quella di Perugia, capoluogo di una regione un tempo “rossa”, da dieci anni espugnata dalla destra: l’intero campo delle opposizioni, attorno a una candidata dal profilo “civico”, sembra in grado di riconquistare la città. Vedremo.
Questi due elementi (gli equilibri complessivi del potere locale in Italia, il rendimento di una coalizione ampia imperniata su Pd e 5 Stelle) avranno certamente un peso nella valutazione politica del voto; ma, naturalmente, l’attenzione è puntata sul voto europeo. In quale misura è fondata l’attesa di quanti guardano a queste elezioni come un indicatore affidabile dell’andamento dei rapporti di forza tra i partiti? La cautela è d’obbligo: in passato, le europee hanno visto risultati poi sconfessati clamorosamente dalle successive elezioni politiche, sono state elezioni segnate da una grande volatilità degli elettori. Può darsi che il contesto politico, italiano ed europeo, dia oggi più stabilità al voto. Ed è questa la prima cosa cui guardare: sarà un voto che si inscrive sulla scia delle elezioni politiche del 2022, o segnerà una qualche inversione di tendenza?
Tradizionalmente, vi è una sorta di gerarchia nella percezione della relativa importanza delle varie elezioni, che influisce sul dato della partecipazione: e le Europee hanno sempre avuto un minore appeal, viste da molti elettori come una sorta di mega-sondaggio che premia il leader o la forza politica che sembra sulla cresta dell’onda in quel momento. Sarà Giorgia Meloni ad avvantaggiarsi di questo fattore, o registrerà i primi segni di logoramento? Ecco una domanda a cui i risultati potranno dare qualche risposta. Così come per il Pd di Elly Schlein: da mesi si insinua che un cattivo risultato sarebbe la premessa per “farla fuori”. Ma è assai improbabile che questo accada: tutto lascia presagire un buon risultato del Pd, purché si consideri che il Pd parte da un 22,7% ottenuto nel 2019 da un partito in cui c’erano dentro ancora Renzi e Calenda (oggi accreditati dai sondaggi di un complessivo 6-7%).
Ecco un altro parametro su cui giudicare il voto: qualunque risultato del Pd, che graviti intorno almeno al 20%, può essere considerato un successo politico per il partito, e anche un buon viatico per il rafforzamento della segretaria, considerando quanto ancora “vecchio”, e spesso impresentabile, sia il partito in molte realtà locali, e quanto difficile, e di lunga lena, sia il tentativo di recuperare almeno una parte di quei sei milioni di voti persi negli ultimi dieci anni (una frattura profonda, non facile da rimarginare, con un “pezzo” di società italiana che tradizionalmente votava per il maggior partito della sinistra).
Anche per i 5 Stelle queste elezioni, sia quelle europee sia quelle comunali, saranno un test molto importante; e il quesito a cui le urne potranno dare una risposta è netto: qual è la vera consistenza del partito di Conte? Quella debole e friabile emersa dal voto locale e regionale, o quella che – contemporaneamente e unanimemente – tutti i sondaggi nazionali continuano ad attribuirgli, e che colloca questo partito intorno a un cospicuo 15%? Un bel rebus, su cui il voto dell’8 e 9 giugno potrà dirci qualcosa. Se si confermasse la debolezza locale e la “tenuta” nazionale significherebbe la definitiva consacrazione del Movimento come del partito “più personale” oggi sulla scena, che deve tutto all’esposizione mediatica e alla notorietà del suo leader.
I risultati saranno influenzati da una variabile decisiva: il livello dell’astensionismo. Nel 2014 votò il 58,7%; nel 2019, il 56,1% (alle politiche 2018, il 72,9%, alle politiche 2022 il 63,9%): il boom, e poi la repentina caduta delle percentuali di Renzi e poi di Salvini si spiegano anche con questi numeri. A sua volta, il livello della partecipazione è un indice significativo del grado di mobilitazione dei vari segmenti dell’elettorato. L’astensionismo non è un fenomeno indifferenziato, spesso può essere definito asimmetrico e intermittente, e le europee si prestano moltissimo a questi andamenti sussultori: per riprendere le note categorie di Hirschman (“lealtà, defezione, protesta”), queste elezioni – per lo scarso rilievo politico generale che, a torto o a ragione, una parte degli elettori le attribuiscono – sono quelle in cui meglio e più facilmente si può manifestare un comportamento di exit o voice verso il partito cui si guarda solitamente (“non sono contento, quindi non vado a votare, tanto queste elezioni contano poco…”). Viceversa, proprio la combinazione di un calo dei votanti (degli altrui votanti) e di una buona mobilitazione dei propri elettori può essere il vettore di un significativo successo elettorale. Anche qui vedremo chi sarà premiato o punito da queste dinamiche: i dati sulla partecipazione, e la loro geografia, prima ancora dello spoglio dei voti, ci potranno dire molto.
Restano molti altri fattori di interesse e di curiosità: riusciranno a superare la soglia del 4% quelle forze che sembrano in bilico? È difficile dare valutazioni, ma – se posso sbilanciarmi con un’impressione personale, che certo potrà rivelarsi fallace – si direbbe che né la lista “Stati Uniti d’Europa” (Renzi e Bonino) né quella di Calenda vivano oggi un particolare slancio (anche se ciò non esclude che quella soglia possa essere raggiunta). Diverso il discorso sulla lista dell’Alleanza verdi-sinistra: la candidatura di Ilaria Salis può rivelarsi efficace, proprio perché le elezioni europee, per le caratteristiche sopra richiamate, si prestano molto a un voto “mirato”, in cui può diventare decisiva anche una singola “campagna” o un singolo obiettivo.
Infine, una notazione di carattere più generale. Anche per queste elezioni europee non poteva mancare la consueta lamentela: “Non si parla di Europa! Si pensa solo al cortile di casa”. Ora, è sempre avvenuto che le elezioni europee, ovunque, siano state l’occasione per misurare i rapporti di forza domestici, e sarebbe stato illusorio pensare che non sarebbe accaduto anche questa volta. Tuttavia, ci sembra che queste elezioni europee segnino alcuni elementi di novità: il tema delle “famiglie politiche” che si confrontano in Europa, e delle loro possibili alleanze, è molto più presente che in passato, e in ogni Paese europeo se ne sta discutendo; così come si è diffusa una certa consapevolezza del ruolo che queste elezioni potranno avere sulla futura governance dell’Unione, a cominciare dagli equilibri con cui sarà composta la nuova Commissione.
Certo, una vera “europeizzazione” della competizione elettorale per il parlamento europeo, la nascita e il consolidamento di un sistema di partiti europeo, si potrà avere solo quando ci sarà un sistema elettorale unico, che costringa quelle “famiglie” a pensarsi davvero su una scala trans-nazionale. Per il momento, accontentiamoci: andare a votare per fermare Le Pen-Salvini-Orbán-Meloni-Abascal, e compagnia bella, ci sembra già un motivo più che sufficiente a farci prestare attenzione a questa prossima scadenza.