All’ingresso di Palazzo Nuovo lo studente esita un attimo quando mi avvicino e gli dico che sono venuto per intervistare qualcuno degli occupanti. È in corso l’assemblea, e mi prega garbatamente di aspettare che finisca. Mi guardo intorno, l’assemblea pare ordinata, ben gestita, decisamente affollata, nonostante il rettore dell’ateneo di Torino abbia dichiarato alla stampa che la partecipazione all’occupazione sta scemando. Ragazzi mainstream, qualche kefiah, qualche unghia laccata, nel complesso niente di diverso da quel che incrocio tutti i giorni nella mia università a Milano, non vedo traccia delle “studentesse islamizzate”, le cui immagini deformate circolavano sui social. Mentre attendo, getto uno sguardo all’interno dell’edificio, e, come mi era stato anticipato da un collega, tutto è a posto, sorprendentemente pulito, e sembra che non sia stato toccato né danneggiato nulla. È improbabile che qui possano essere chiesti danni agli studenti pro-Palestina, come pare voglia fare il rettore della Università di Padova. La memoria corre ad altre epoche, altre occupazioni, ed è stridente il contrasto…
Poi si stacca dal gruppo e viene da me Silvia, delegata a parlarmi. Minuta, graziosa, determinata. Le chiedo dell’imam, della discussa preghiera. Ride, mi dice che il personaggio in questione non è un imam, ma un predicatore che è attivo in una moschea che ha supportato fin dall’inizio il comitato pro-Palestina, e che è venuto a fare la preghiera del venerdì su invito di studenti islamici presenti nel comitato di occupazione. “Tra noi ci sono musulmani, come ci sono cattolici, come ci sono atei”, aggiunge Silvia, “se ci avessero chiesto gli studenti cattolici di trovare un momento di preghiera per la pace, l’avremmo permesso egualmente”. Ritiene perciò strumentale la rivendicazione agitata in questi giorni della laicità della istituzione universitaria, di cui è ben consapevole: a suo dire, il termine “laico” è stato utilizzato per costruire una critica pretestuosa “nei confronti di persone che si sono riunite per un momento di solidarietà e confronto tra storie, religioni e visioni diverse…”
La interrompo e le dico: “Mi pare però che i contenuti espressi dal predicatore fossero piuttosto forti, per non dire violenti, a quanto si legge in questi giorni sulla stampa”. Scuote la testa e si arrabbia: “Parole travisate, termini tradotti male dall’arabo per scatenare una campagna contro di noi”. Certo il comunicato stampa rilasciato dagli studenti, in risposta a quanto circolato, attacca i giornalisti e le autorità, e parla senza mezzi termini di: “(…) dichiarazioni razziste e islamofobe (…) che hanno volutamente strumentalizzato termini e concetti in favore di una narrazione fomentatrice d’odio”. Silvia ci tiene ad aggiungere: “La solita visione etnocentrica, occidentale e coloniale, con la riproposizione degli stereotipi, che serve a eludere la nostra richiesta di confronto. Ci è stata più volte negata la stesura di un documento comune tra studenti e senato accademico”.
La chiacchierata si chiude con alcune considerazioni sulla volontà del Comitato per Gaza di proseguire l’occupazione, anche perché altre facoltà torinesi sono occupate e si assiste a un sussulto di coscienza da parte di studenti che, in passato, non si erano mai interessati di politica e di questioni internazionali.
Poi al bar incontro Michele, dottore di ricerca, studioso di movimenti sociali, presente nei primi giorni dell’occupazione, e gli chiedo che cosa ne pensi. “Molto ben intenzionati”, mi dice, “preoccupatissimi di non danneggiare le strutture e di non dare adito a speculazioni e provocazioni, il motto è ‘safety prima di tutto’, salvaguardia dei beni pubblici e correttezza”. E prosegue spiegandomi che all’interno la composizione è molto variegata, ci sono studenti alla prima esperienza così come politici già navigati: “C’è molta discussione e anche molta ingenuità, soprattutto da parte dei neofiti, il che fa sì che il livello del dibattito non sempre sia alto, ma c’è molta buona volontà, e soprattutto aleggia il timore che un conflitto di grande portata sia alle porte, senza che ci sia la capacità di comprenderne fino in fondo le ragioni”. A suo dire, alcuni studenti esprimono disorientamento, timore, sentono di essere presi in una macchina più grande di loro, mentre si diffonde, anche al di là della cerchia dei politicamente attivi, la consapevolezza che la terribile questione di Gaza debba essere oggetto di una mobilitazione di largo respiro. Per molti l’adesione al comitato rappresenta una sorta di spartiacque, di “rito di passaggio” generazionale di iniziazione alla politica. Secondo Michele, però, il destino dell’ondata di occupazioni e di acampadas in tutta Italia non è chiaro: c’è una certa fragilità interna nel meccanismo sinora innescatosi: si tratta per alcuni di un’adesione basata su una spinta prevalentemente emozionale, e tutto questo potrebbe preludere tanto a un allargamento della protesta, quanto a un suo progressivo spegnersi.
Riflettendo su quanto emerso dalle due interviste, direi che le supposte “seduzioni islamiche” ipotizzate da una parte della stampa siano piuttosto remote. Per quel che ho visto, mi pare muoversi nell’occupazione la classica generazione woke, le cui caratteristiche fanno sì che difficilmente possa essere irretita dal proselitismo di predicatori più o meno improvvisati. La sensazione è che nella paralisi, se non nella ritirata, delle istituzioni universitarie sia stato lasciato ai media il compito di rintuzzare con i metodi loro propri le richieste e le rivendicazioni degli studenti.
La ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, con antico savoir faire di stampo democristiano, ha probabilmente evitato che prevalessero forze, presumibilmente presenti all’interno del governo, che avrebbero preferito risolvere la questione delle occupazioni in maniera spiccia e con le cattive. In luogo di un intervento diretto, è stato demandato ai media il compito di seminare il discredito, non appena fosse compiuto il primo passo falso degli occupanti, sminuendone le rivendicazioni, in attesa che la folata di proteste si estingua da sola.
Certo, dopo molti anni di assenza della politica dall’università – anni che l’hanno vista trasformarsi profondamente, sia come composizione degli studenti sia come modalità di selezione del corpo docente –, mentre si illanguidiva fino a scomparire la funzione critica che essa dovrebbe avere, l’attuale risveglio di forme di attivismo potrebbe preludere a una più ampia riflessione sul ruolo che essa svolge. Anche se le occupazioni attuali sono concentrate prioritariamente sulla lancinante questione palestinese, potrebbe essere dunque arrivato il momento in cui si comincia a mettere in discussione il processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale: la burocratizzazione, la produttività compulsiva spesso incompatibile con l’elaborazione della conoscenza, la retorica del merito e dell’eccellenza, che nasconde una realtà in cui i tagli e lo spostamento dei finanziamenti dal diritto allo studio lasciano vincere sempre gli stessi, riproducendo e aggravando le disparità. Ma forse è proprio questo allargamento del dibattito che si vuole a tutti i costi evitare, agitando magari come spauracchio qualche fantasma islamico.