Mantenere in piedi un impero coloniale in miniatura, per evidenti interessi economici, ha un costo. È il caso della Nuova Caledonia – già colonizzata dalla Francia nel 1853 e diventata, nel 1946, territorio francese d’oltremare – dove nei giorni scorsi sono avvenuti violenti scontri, nella capitale Numea, tra gli indipendentisti e le forze di polizia, con morti e saccheggi.Sono rimaste uccise sei persone, tra cui due gendarmi, mentre i danni ammonterebbero a duecento milioni di euro. Tutto ciò a causa dell’approvazione a Parigi di una legge elettorale a favore dei francesi e poco gradita dagli autoctoni kanak, rappresentati dal Fronte di liberazione nazionale kanak e socialista (Flnks). Uno scenario che ha spinto il presidente Macron a programmare un viaggio nell’arcipelago, dopo l’invio di rinforzi finalizzati all’evacuazione dei trecento turisti australiani e neozelandesi (cinquanta dei quali in una situazione personale complicata), che si sono trovati improvvisamente nel bel mezzo di una “guerra” nella capitale.
La situazione ha comportato la proclamazione dello stato d’emergenza – provvedimento già preso, nel1985, dal premier socialista Laurent Fabius, sulla base di una legge del 1955 riguardante l’Algeria, un anno dopo la decisione dell’Onu di definire la Nuova Caledonia come un Paese da decolonizzare. Allora la rivolta provocò la morte di diciannove kanak e di due gendarmi. Dietro questo conflitto, che riesplode dopo quarant’anni di una pace relativa, c’è una lunga storia. Non hanno certo giovato le dichiarazioni di Parigi che considera terroristi gli oppositori alla legge in questione. Parole che hanno reso vano l’appello alla calma lanciato da tutte le forze politiche locali, dagli indipendentisti ai “lealisti”, in una sorta di appello all’unità nazionale, rivolto in particolare ai giovanissimi kanak che il Fronte non riesce a controllare, e che sono riusciti a organizzare delle vere e proprie milizie armate.
La legge elettorale all’origine del conflitto è stata votata dall’Assemblea nazionale, con 351 voti contro 153, e, contrariamente a quanto previsto dalla vecchia normativa, permetterebbe alle persone nate sul posto dopo il 1998 e ai residenti da più di dieci anni di partecipare alle elezioni provinciali, che dovrebbero tenersi entro il 2025. Stiamo parlando di appena venticinquemila persone, troppe in ogni caso per gli autoctoni, che temono un ridimensionamento in termini di percentuale della loro rappresentanza, malgrado siano maggioritari (112mila), mentre gli europei, i caldoches (in parte discendenti dai comunardi deportati dopo la sconfitta della Comune di Parigi nel 1871), sono 65.500, con 22.500 originari dell’isola di Wallis, più altri in maggioranza asiatici.
Gli autoctoni sono alla guida del Paese, e tuttavia si sentono ai margini, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici. La principale responsabilità di quanto sta succedendo è senza ombra di dubbio del governo di Parigi, che non si è preoccupato di discutere la legge con i locali. Una decisione, quella dell’Eliseo, duramente criticata dalla sinistra francese, comunisti e France Insoumise in primo luogo, che hanno anche stigmatizzato la proclamazione dello stato d’emergenza. Macron si è reso disponibile a ritirare la legge qualora le parti in causa trovino un accordo; altrimenti la parola passerebbe al Congresso locale, all’Assembla nazionale e al Senato, per una complessa quanto altrettanto impopolare modifica della Costituzione.
Abbiamo accennato alla complicata storia dell’arcipelago. Grazie a un’intesa chiamata “Accordo di Numea”, raggiunta nel 1998, dopo dieci anni di trattative, dal primo ministro socialista dell’epoca, Michel Rocard, con la mediazione della Chiesa protestante, si aprì la strada per mettere fine a un’anacronistica dominazione coloniale residuale su un territorio situato a diciassettemila km da Parigi. Un controllo, quello francese, che quasi sempre non comporta alcun vantaggio per i Paesi a esso sottoposti (vedi qui). L’intesa raggiunta da Rocard prevedeva tre referendum, nel caso ci fosse stata una bocciatura della richiesta di indipendenza, e uno solo nel caso di un “sì”. I tre previsti furono tutti vinti dal “no”: nel 2018 con il 56,4 %, nel 2020 con il 53,7, e nel 2021 con il 96%, in quanto le forze indipendentiste boicottarono l’appuntamento referendario. Va ricordato quanto avvenuto nel 1989, quando il leader kanak, Jean-Marie Tjibaou, un uomo di pace, venne ucciso da un estremista indipendentista. In suo onore, l’architetto italiano Renzo Piano realizzò un centro culturale da lui progettato.
Come in quasi tutti i conflitti che tormentano il pianeta, anche in questo caso la fa da protagonista la questione risorse, in questo caso minerarie. Si tratta del nichel, che serve a produrre acciaio inossidabile, la cui presenza nelle isole dell’arcipelago è pari al 20-30% delle intere riserve mondiali. Il problema riguarda i prezzi spinti al ribasso per fare concorrenza a quello proveniente dall’Indonesia, dove, grazie alla Cina, sono state raggiunte quasi due milioni di tonnellate nel 2023, mentre il tetto in Nuova Caledonia è stato di 230mila tonnellate. Questa situazione ha messo in difficoltà le aziende, in particolare Sln ed Eramet, che dovrebbero essere salvate dalla Francia, mentre secondo gli accordi la loro gestione doveva essere appannaggio del Congresso locale. Un tentativo, quello di Parigi, di frenare la possibile intromissione di Pechino, che controlla già sufficientemente il nichel asiatico.
Non manca un complicato intreccio geopolitico, che dal Pacifico arriva al Caucaso e viceversa. Di cosa si tratta? Come rende noto il settimanale “Internazionale”, la Francia sostiene l’Armenia, nel conflitto con l’Azerbaigian (vedi qui), anche con una fornitura di armi. Questo ha spinto Baku, non a caso tirata in ballo il 16 maggio scorso da Gérald Darmanin, ministro dell’Interno e dei Territori d’oltremare, a prendere contatti con gli indipendentisti, con una guerra di disinformazione senza precedenti denunciata da Viginum, l’organismo dello Stato francese che si occupa di sorvegliare Internet. A ciò si aggiunge l’incognita di un eventuale quanto incerto ruolo della Russia, che con l’Azerbaigian ha sempre avuto un rapporto altalenante. Della Cina abbiamo già detto riguardo al nichel, ma la questione va ben oltre. Il controllo del Pacifico è un tema particolarmente caro ai dirigenti di Pechino, attenti a capire chi governa i vari Stati, piccoli e grandi, della vasta regione, nell’ambito della “guerra geopolitica” con gli Stati Uniti.
Ad avvantaggiare il colosso asiatico sono state sia la vittoria, all’inizio di maggio, nelle isole Salomone, del filocinese Jeremiah Manele, sia la rottura delle isole Nauru con Taiwan, avvenuta lo scorso gennaio, con il conseguente avvicinamento alla Cina. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono ben presenti, in particolare con Aukus, l’alleanza militare con l’Australia, creata nel 2021, all’indomani dell’annullamento di un contratto per la vendita di sottomarini francesi a beneficio di quelli a propulsione nucleare americani. In questo scenario pieno di insidie, la Francia dovrà gestire al meglio il conflitto in corso in Nuova Caledonia, interloquendo al massimo con il governo e le popolazioni locali. Pena lasciare aperta la strada agli appetiti cinesi, o magari anche russi, lasciando come unico loro avversario gli Stati Uniti, e mettendo in atto, come già in Africa, una indecorosa ritirata.