Il nostro diario sulla marcia di avvicinamento del faccia a faccia fra Meloni e Schlein è stato interrotto dalla decisione dell’Agcom, scontata in base alle norme sulla violazione delle regole della “par condicio”, che sarebbe stata indotta da quell’evento. Ora, sembra incredibile, ma senza lo show non si sa come andare avanti, se non polemizzando sul divieto dello show medesimo. La maggioranza si trova schiacciata dalle proprie contraddizioni, soprattutto nell’accentuata divaricazione fra le velleità centriste di Forza Italia e le derive estremiste della Lega e degli stessi Fratelli d’Italia: senza poter caricare l’attesa per la discesa in campo della premier, non ha linguaggi per parlare direttamente al Paese, se non quello delle clientele da soddisfare, spezzettando provvedimenti e leggi di spesa, che ci stanno facendo rapidamente superare ogni linea rossa delle emergenze contabili agli occhi di una preoccupatissima Europa.
Le opposizioni sono ancora più distanziate e contrapposte proprio per via della tentazione bipartitista che il Pd aveva coltivato, con l’aura del grande duello vendicatore, e che inevitabilmente sacrificava i 5 Stelle già depressi dai risultati mediocri, senza contare il rissoso campicello dei centristi, che rotolano nella polvere abbracciati nella permanente rissa fra Renzi a Calenda.
In questo quadro, e in uno scenario globale quanto mai drammatico per i crescenti pericoli di una generalizzazione del conflitto fra le superpotenze, con le crisi regionali che tendono a complicarsi, dal Medio Oriente al Corno d’Africa, alla Libia e all’Iran, con immancabili ripercussioni nel bacino del Mediterraneo, la politica si trova priva di temi e argomenti mobilitanti. Ormai, dopo l’eliminazione dal “tavolo feticcio” del duello fra le due condottiere, rimangono solo gli ultimi sondaggi, prima del silenzio elettorale, ad accendere le tensioni fra i diversi schieramenti. Sondaggi che si giocano tutti sullo spostamento minimo di pochi decimali, e che fanno però gridare alla grande svolta.
Ma i blocchi rimangono sostanzialmente immobili: il partito meloniano di qualche punto sotto il 30%, con i due alleati minori, i salviniani e i berlusconiani, all’8%, che cercano di ingaggiare un duello a cui non bada nessuno; il Pd attorno a un mediocre 20%, stima che rischia di essere sopravvalutata, per alcuni effetti di traino sia delle candidature dell’Alleanza verdi-sinistra – dalla Salis a Marino, all’ex sindaco di Riace, Lucano – sia di centro, con l’intesa fra Renzi e Bonino, e con Calenda, che ogni giorno annunciano scippi di consiglieri che si precipitano da una parte e dall’altra, tutti galleggiando sulla soglia fatidica del 4%; mentre Santoro, dopo avere tanto tuonato, sembra lontano dal quorum. Le ultime rilevazioni rendono però noto che gli effetti delle inchieste giudiziarie, prima in Puglia e poi in Liguria, potrebbero provocare sommovimenti con spostamenti di voti all’ultimo momento. Non si capisce, tuttavia, in quale direzione, visto che l’unica “par condicio” meticolosamente osservata è quella degli scandali che si moltiplicano nei due campi.
Uno spettacolo desolante, che colpisce soprattutto a sinistra, dove ogni ambizione di rinnovamento o di contrapposizione ai pericoli di una destra montante, che pure vengono declamati, non riescono a radicarsi sul territorio né a tradursi in problematiche concrete e in interessi sociali. La segretaria, con i suoi ondeggiamenti, occhieggia all’astensionismo di sinistra, con mosse come la firma del referendum della Cgil sul Jobs Act, oppure fa la voce grossa in difesa dei diritti civili, che la destra, esattamente per motivi opposti, ciò per risucchiare al voto quote di astensionismo qualunquista, mostra ogni tanto di voler comprimere. Al di là di queste fiammate, niente viene seriamente attaccato. La gestione molliccia e residuale del Pnrr, la grande occasione che si sta rivelando una disillusione, non viene presa di petto. Il bubbone devastante della sanità, ormai umiliata sia nella quantità sia nella qualità delle prestazioni, con la fuga di migliaia di medici e infermieri, che hanno capito che solo all’ombra di granducati privati si può lavorare, rientra appena debolmente nelle emergenze da denunciare. Il vuoto della politica industriale, a cui si assiste con la beffarda vicenda di Stellantis (vedi qui), non è motivo per una campagna sullo spessore economico e produttivo che conserverà il Paese.
In tutto questo, la destra ha lanciato pacchianamente una campagna acquisti sull’intera galassia digitale, cercando di occupare l’intelligenza artificiale come ha fatto con la Rai. Un tentativo ridicolo, basato sulla mobilitazione di risorse miserabili – un miliardo, mentre solo OpenAi parla di una raccolta di settemila miliardi di dollari per la transizione alla nuova generazione di sistemi generativi –, e che permetterebbe alla sinistra di inchiodare i buffi personaggi del governo, come il ministro Urso o il sottosegretario Butti, che giocano a una Silicon Valley all’amatriciana, aprendo un canale di comunicazione con circa un milione e mezzo di tecnici e ricercatori che lavorano direttamente in Italia nell’indotto di questo segmento strategico. Rimane invece la saltuaria lamentazione per i riders, i lavoratori controllati da algoritmi, che sono solo uno dei tanti effetti di una privatizzazione senza negoziazione sociale del ciclo digitale.
Ci accorgiamo che abbiamo elencato almeno i titoli di un programma di attacco, che potrebbe – o meglio, avrebbe potuto – portare le opposizioni ad assediare un governo compromesso e spaesato. Ma non ci sono interlocuzioni a sinistra. Se non i nomi delle candidature che stanno sbiadendo: da Lucia Annunziata a Cecilia Strada, al temuto, ma rimasto muto, ex direttore dell’“Avvenire”, Tarquinio. Del resto la politica rimane una scienza esatta, non permette di giocare con la sabbia. Se continui a fare castelli in riva al mare, è poi implacabile l’onda della realtà che te li disfa.