Più di novantotto milioni di messicani, il 2 giugno, saranno chiamati a votare per quella che viene descritta come “l’elezione più grande della storia del Messico”. Si vota non soltanto per il presidente della Repubblica e per le due camere del parlamento (128 senatori e 500 deputati, eletti per metà in maniera proporzionale e per metà in collegi uninominali), ma anche per il sindaco (jefe de gobierno) di Città del Messico, i governatori di otto Stati (Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz, Yucatán), e per circa ventimila cariche federali e locali (gli alcades,i sindaci delle municipalità). Com’è ovvio, approssimandosi la data fatidica, il clima nel Paese e sui media si sta facendo sempre più caldo. Anche se la violenza non accenna a diminuire (ne abbiamo scritto qui), la campagna elettorale comunque va avanti. Domenica 28 aprile, si è tenuto il secondo dei tre dibattiti elettorali televisivi tra i candidati alla presidenza, che scandiscono la campagna in corso. Il prossimo e ultimo si terrà il 19 di maggio, dedicato specificatamente al tema della sicurezza, finora sorprendentemente rimosso.
Abbiamo pensato di commentare il secondo dibattito, e di discutere della situazione politica attuale, con José Ramón Carreño Carlón, docente di Diritto della comunicazione alla Unam (Universidad nacional autonoma de Mexico) e opinionista dell’“Universal”, uno dei principali e storici quotidiani del Paese. Carreño è stato un uomo politico importante nella transizione dal sistema del monopartitismo del Pri verso una democrazia dell’alternanza “all’americana” con il Pan (Partido acción nacional, di orientamento conservatore e cristiano-democratico). Durante l’amministrazione del presidente Carlos Salinas de Gortari (tra il 1988 e il 1994), fu nominato direttore generale della comunicazione sociale della presidenza e portavoce del governo federale (dal 1992 al 1994), ottenendo grande visibilità per il suo riconosciuto lavoro a sostegno dell’immagine di Salinas, del programma di solidarietà e della firma dell’Accordo di libero commercio nordamericano (Nafta). Si tratta dunque di una traiettoria politica decisamente opposta a quella dell’attuale presidente, Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo) che Carreño ha conosciuto personalmente e ha definito, in un articolo, “lo specchio satirico di Trump”.
Chi ha vinto il secondo dibattito a tuo giudizio?
Manca ormai meno di un mese alle urne: in una condizione di normalità democratica si potrebbe dire che non ci sono grandi cambiamenti nella prospettiva del voto. Tuttavia, poiché in Messico non stiamo vivendo una situazione di “normalità democratica” – anzi viviamo molte “anormalità” –, occorre fare diverse osservazioni. La prima è che il bilancio del secondo dibattito ci consegna una candidata di opposizione più aggressiva, con maggiore iniziativa, che ha aperto la possibilità di mobilitare i suoi elettori. Il caos dei sondaggi elettorali – che vanno da alcuni pronostici in cui la candidata dell’opposizione, Xóchitl Gálvez, vince per un punto, a quelli opposti, in cui Claudia Sheinbaum (la candidata di Amlo) vince per trenta punti – non permette di chiarire la situazione degli indecisi. Però si è notato un cambiamento. Gálvez ha indicato alcune delle tare della candidata del “regime”, e alcuni degli effetti più perniciosi dell’ultimo governo, senza che vi fosse una risposta alle sue accuse. Credo dunque che se ne esca con un animo rinnovato delle opposizioni, e che, per l’appuntamento del 19 maggio prossimo, possa esserci una grande giornata di mobilitazione, in cui si potrà saldare l’opposizione dei partiti con quella del movimento cittadino. È possibile che si abbia una sorpresa.
Come osservatore straniero, sono stato impressionato dal numero di assassini politici. Quali sono secondo te le ragioni storiche e politiche di questa violenza?
Senza dubbio è un problema che non è iniziato con questo governo, ma si è acutizzato molto con la sua politica. In alcuni documenti ufficiali del Pentagono e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, si è parlato di un “lasciar fare, lasciar passare” per i cartelli criminali. La narrativa del presidente Amlo – molto efficace per altri aspetti – è stata totalmente disastrosa a questo riguardo. “Abbracci e non pallottole” per i membri dei cartelli della droga, espressioni di rispetto e di riconoscimento per il buon comportamento dei loro capi – per esempio non gli piace che si chiami “El Chapo” il loro leader storico, ma vuole che ci si riferisca a lui come al “signor Guzmán”. Tutto questo ha dato l’impressione che il governo, piuttosto che combatterle, avesse una relazione rispettosa con le bande criminali del Paese. Esiste inoltre l’evidenza delle cosiddette “elezioni intermedie”: ci sono stati dei significativi successi del partito di governo (Morena) nelle zone controllate dalle bande criminali, come la Costa del Pacifico, la Bassa California (Nord e Sud), Sonora, Sinaloa, Nayarit, Michoacán, Oaxaca. In queste zone ci sono stati molti incidenti ed episodi critici, come quelli dei cartelli che hanno sequestrato i candidati delle opposizioni per rilasciarli subito dopo le elezioni (il cosiddetto fenomeno del “sequestro express”, ndr). Ci sono elementi per pensare – almeno in alcune zone – a un accordo o alleanza tra le bande criminali e il partito di governo. Come conseguenza, le bande si sono appropriate del territorio: i dati resi pubblici nelle udienze del Congresso degli Stati Uniti dicono che una quarta, o addirittura una terza parte, del territorio nazionale (Stati, municipi) potrebbe essere nelle mani delle bande, esercitando una pressione e un’influenza importante in queste elezioni. Si comprende bene che il saldo di questa politica è catastrofico Si calcola che, al termine dei sei anni del passato governo, si sia raggiunta la cifra di circa duecentomila tra omicidi e desaparecidos, attribuibili in larga misura a questo clima di tolleranza nei riguardi del crimine e al controllo incontrastato di alcuni territori da parte delle bande. Questa politica adesso è rappresentata dalla candidata del governo uscente.
Nell’ultimo dibattito televisivo Xóchitl Gálvez ha chiamato Claudia Sheinbaum “narcocandidata”. Nella letteratura giornalistica si fa spesso riferimento al Messico come a un “narco-Stato” o un “narcogoverno”. Tu cosa ne pensi?
Non lo definirei in questo modo. Io credo che siamo su una strada molto pericolosa, che vede grandi parti del Paese di fatto governate dai narcos. I narcos hanno il loro sistema fiscale, fanno pagare un diritto di passo alle imprese piccole grandi e medie, fanno pagare i trasportatori che passano per i loro territori, hanno un sistema di “giustizia”: sanzionano, sequestrano, uccidono chi non accetta le loro regole. Ma non c’è un “narcogoverno”, ci sono governi locali controllati dai narcos. Non è una situazione generalizzata, riguarda solo alcuni territori. Occorre un cambio molto radicale per evitare che la situazione si generalizzi. C’è stato, con l’ultimo governo, un processo di militarizzazione finora sconosciuto in Messico. Il presidente ha dato alle forze armate una serie di funzioni civili: adesso i militari amministrano opere pubbliche, trasporti, treni, aerei. Occorrerebbe invece che tornassero ai loro compiti precedenti, tra cui quelli che li vedevano occupati nel coadiuvare le forze di polizia per controllare le pretese dei cartelli della droga.
Parliamo del presidente e del partito da lui fondato, Morena…
Da alcuni settori dell’opinione pubblica e del mondo accademico, Amlo viene descritto come un “regresso” nel movimento di democratizzazione del Paese, un processo che inizia negli anni Novanta, dando autonomia all’arbitro elettorale, e che culmina con le elezioni intermedie del 1997, che vedono il trionfo delle opposizioni nella capitale del Paese, fino alla vittoria di un candidato presidenziale delle opposizioni nel 2000 (con la prima vittoria di un presidente del Pan, Vicente Fox Quesada, ndr). Quando si parla di un regresso si intende, dunque, il ritorno a un partito unico e a una opposizione puramente testimoniale, che non ha nessuna seria possibilità di andare al governo. Io non credo però che al cuore del progetto di López Obrador ci sia un “regresso”, quanto piuttosto un processo di marginalizzazione dell’opposizione, simbolizzata dall’atteggiamento di Claudia, che neppure si girava, durante il dibattito, a guardare la candidata dell’opposizione. Una forma preverbale per dire “non esisti” o “non dovresti esistere”. È l’aspetto simbolico della questione; quello materiale è espresso da Amlo, che è un chiaro esempio di quella che i sociologi chiamano “leadership carismatica”, e in Messico chiameremmo “caudillismo”. Queste figure sono da sempre presenti in America latina, e normalmente creano il loro proprio partito. Amlo, prima di fondare Morena, è cresciuto in un partito di opposizione, il Prd, fondato da Lázaro Cárdenas, figlio di un presidente molto apprezzato (Lázaro Cárdenas del Río, presidente dal 1934 al 1940, ndr) per il suo nazionalismo popolare. Nella seconda decade di questo secolo, il presidente attuale ha creato il suo proprio partito, in cui di fatto designa i suoi collaboratori e successori, al di là delle formalità di qualsiasi elezione interna. Lui, in queste elezioni, ha nominato i candidati del partito per il congresso. Si suppone, dunque, che una volta eletti obbediscano a lui, non alla presidente che sarà formalmente scelta. Ha poi nominato i candidati a governatore dei singoli Stati. Questo insomma è un modello diverso da quello precedente, che vedeva il presidente della Repubblica distinto dal partito. Inoltre, il presidente aveva un potere limitato ai sei anni del mandato. Tutto indica, invece, che il potere rimarrà nelle mani di Amlo, anche dopo l’elezione della sua eventuale succeditrice.
Amlo ha fondato non solo Morena, ma un movimento che lui stesso chiama “obradorismo” o dell’“umanesimo messicano”, il cui motto principale è primero los pobres (“prima i poveri”). Qual è la tua opinione sull’obradorismo?
Credo che si tratti di un movimento reale, formatosi nei decenni, a partire dalla fine degli anni Ottanta. Ha creato una narrativa della decadenza, della corruzione di tutto l’apparato statale e dei partiti tradizionali (analogamente a quanto ha fatto Hugo Chávez in Venezuela), che ha ottenuto un grande successo, anche nelle classi medie e alte. È riuscito a creare un movimento di massa che crede in lui, percorrendo il Paese in lungo e in largo. Può contare come minimo su un 52-53% di consenso nella popolazione – ma alcuni sondaggi lo danno più in alto. Si tratta di un fenomeno analogo al peronismo, che probabilmente sopravviverà per lungo tempo, anche al di là della persona del presidente.
Qui c’è un aspetto molto interessante da sottolineare. Questo modello di leadership si è confrontato con la modernizzazione politica ed economica del Paese stigmatizzandola come “neoliberalismo conservatore e corrotto”. Non dubito che ci sia stato anche questo; tuttavia questo movimento ha anche creato le condizioni per la competizione elettorale e ha aperto economicamente il Paese al mondo. Il Messico sopravvive grazie a due grandi passi compiuti a partire dagli anni Novanta: il trattato di libero commercio con il Nord America, e il trattato di libero commercio con l’Europa, seguiti da altri trattati di libero commercio con realtà economiche avanzate, come il Giappone, e con altri Paesi dell’America latina. Contro queste aperture va il movimento nazionale e populista, soprattutto in materia di energia, ma con una grande voglia di farlo in materia finanziaria e bancaria. Anche se non è sufficientemente pazzo da farlo davvero.
La coalizione Pri-Pan-Prd, che si oppone a quella retta da Morena, raccoglie tutto il vecchio sistema politico, dalla destra alla sinistra dell’ex partito di Amlo. Quale credibilità può avere un’aggregazione del genere?
Amlo ha creato lo schema per un’elezione plebiscitaria. L’opposizione democratica, partitica e civica, si è preparata per scongiurare il peggio. Del resto, tutti i partiti, di tutte le culture politiche, si unirono per il referendum contro Pinochet nel 1988.
Secondo te, siamo in una situazione simile?
No, la situazione non è paragonabile, però i partiti si preparano per un modello che può andare verso la dittatura, come quella di Chávez o di Maduro. Si sono stretti in alleanza per affrontare un plebiscito. Così si spiega la coalizione tra partiti che mai si sarebbero uniti: essi vogliono difendere un modello che – con tutti i suoi difetti, le tensioni e le contraddizioni – prevedeva una società democratica e di mercato.
Un pronostico finale sulle elezioni?
Il mio pronostico è abbastanza tragico. Il presidente Amlo vincerà. Ha una forte base elettorale, ha comprato i voti e ha una base reale di consenso, nonostante abbia violato tutte le leggi elettorali. La sua ambizione è di avere un congresso con la maggioranza qualificata di due terzi per cambiare la Costituzione, o almeno con una maggioranza assoluta per far passare automaticamente le sue leggi. Lo conosco personalmente da quando era molto giovane, è una personalità molto primitiva, impulsiva: potrebbe avere la tentazione di annullare le elezioni se non vince. Può proseguire nel suo cammino di distruzione della Costituzione. Ha con sé le forze armate, cui ha dato molte prebende. Ha il “potere della strada”, quello di cui parlava Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte a proposito del Lumpenproletariat, nella forma di una massa da lui sussidiata. Ha la maggioranza del congresso. L’unico potere che ancora non controlla – e che potrebbe controllare se vincesse – è il potere giudiziario che, fortunatamente, in Messico ha ancora una sua autonomia. Pertanto, siamo in una situazione che potrebbe prefigurare una dittatura. Ma spero che il mio pronostico non si compia.