L’incontro del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, mercoledì 8 maggio, è sembrato sancire l’incremento della spesa militare italiana, o quanto meno il coinvolgimento sempre maggiore del nostro Paese nelle missioni Nato. La visita era incentrata ufficialmente sui temi di attualità in preparazione al vertice dell’Alleanza atlantica, previsto nel prossimo luglio a Washington, ma lo stesso Stoltenberg ha affermato che “si è discusso dell’aumento fino al 2% del Pil per le spese militari”, fermo oggi all’1,43%. “L’Italia ha l’ambizione di crescere e muoversi con gli altri”, ha detto il segretario norvegese, che non perde l’occasione per farsi fotografare con file di soldati. L’invasione dell’Ucraina e la retorica della difesa, nonostante non ci sia il rischio imminente di un attacco militare contro un alleato Nato, hanno fatto crescere un mercato e un consenso alle imprese belliche nell’aria da tempo. Dal 2014, anno in cui Stoltenberg è stato eletto segretario generale, l’Italia non ha mai smesso di incrementare la spesa pubblica dedicata agli armamenti, rendendo così evidente “il contributo di Roma all’Alleanza”.
Aerei italiani sorvolano i cieli centro-asiatici e mediorientali, e navi svolgono pattugliamenti marittimi: ricordiamo la recente Operazione Aspides in contrasto agli Huthi nel Mar Rosso (vedi qui). L’Italia guida attivamente gruppi tattici in Bulgaria, e dal 2022 fornisce all’Ucraina un sistema di missili terra-aria altamente ingegnerizzati. Non solo: i nostri soldati e le nostre tecnologie partecipano alla formazione Nato degli eserciti locali in vari Paesi, tra cui l’Iraq, e alle “missioni di mantenimento della pace”, per esempio in Kosovo.
L’Italia ha ora un’importanza strategica che va al di là del coinvolgimento militare. Secondo i dati dell’ultimo report del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), infatti, il nostro è il Paese che ha maggiormente accresciuto le esportazioni di armi negli ultimi anni, arrivando a un aumento dell’86% tra il 2019 e il 2023. Si è collocato addirittura al sesto posto tra i produttori mondiali, dopo Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania. Rispetto ad altri Paesi in pole position nella classifica, non abbiamo però un’economia dal recente passato florido. Secondo quanto comunicato dalla Banca d’Italia, a dicembre del 2023, il debito pubblico è salito a circa 2.863 miliardi di euro. Non sarebbe quindi il momento opportuno per investire in qualcosa di diverso da sanità, istruzione e incentivi alle aziende per favorire le assunzioni.
Inoltre in Italia, come in altri Paesi, nonostante esistano sistemi di controllo, non è trasparente la destinazione d’uso finale delle tecnologie belliche. La legge 185/90, che regolamenta le esportazioni di armamenti italiani, ne vieta esplicitamente la vendita ai Paesi che vivono conflitti interni, in contrasto con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, e a quelli i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. Ma molte licenze registrate dal Senato hanno destinatari che preoccupano, per gli atteggiamenti predatori o per la possibile rivendita a terzi. L’Italia commercia con clienti abituali come il Qatar, il Kuwait e l’Egitto, e anche con l’Arabia saudita, la Turchia e l’Azerbaigian, non certo partner affidabili. Nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, relativa al 2023, si legge che l’anno scorso sono state autorizzate transazioni per un totale di 7.563 milioni di euro, di cui 6.311 in esportazioni (contro i 5.289 milioni del 2022). Numeri che confermano l’incremento rilevato dal Sipri.
Se l’export italiano fuori dall’Unione europea è generalmente in calo (-1,2%), non lo è quello di aerei da combattimento. L’ossessione per la sicurezza spinge i Paesi a indebitarsi per proteggersi o per sorvegliare i propri cittadini, rendendo il business delle armi tra i più redditizi. E quando ci sono opportunità di guadagno, c’è chi le sa cogliere. Un esempio è il conflitto d’interessi che coinvolge Guido Crosetto. Il ministro della Difesa, nel 2021, ha incassato dalla Leonardo Spa, partecipata dallo Stato, 619mila euro in consulenze, arrivando a guadagnare più di quanto percepisca il presidente del colosso di armamenti. Non stupisce, quindi, che proprio la Leonardo sia destinataria di circa il 21% del totale delle autorizzazioni per la vendita di materiale bellico all’estero.
Anche le compagnie più piccole, quelle di articoli da caccia per esempio, vista la possibilità di profitto, cercano di ricavarsi una fetta di mercato, attuando in alcuni casi una riconversione al contrario, ossia spostando dal civile al militare il loro impegno produttivo. In Myanmar (Birmania), dove è in corso una guerra civile (vedi qui), e addirittura in Iran, sono stati ritrovati bossoli prodotti in Italia dalla Cheddite Srl, usati spesso contro la popolazione civile. L’azienda franco-italiana, con sede a Livorno, produce cartucce e armi da caccia e, attraverso triangolazioni di commerci transfrontalieri, riesce ad aggirare la legge 110/75, che non permette la vendita di armi comuni a Paesi con situazioni politiche instabili.
“Le guerre in Iraq e Afghanistan hanno rimodellato le percezioni dell’industria militare e di sicurezza privata”, si legge nel report dell’agenzia Sipri: “Il massiccio impiego di contractor da parte degli Stati Uniti ha creato nuove opportunità di mercato in tutto il mondo”. La spesa destinata all’industria bellica, nel 2023, è cresciuta a livello globale per il nono anno consecutivo, per la prima volta dal 2009, in Europa, Asia e Oceania. “L’aumento senza precedenti della spesa militare è una risposta diretta al deterioramento globale della pace e della sicurezza”, ha dichiarato Nan Tian, ricercatore senior del “Programma di spesa militare e produzione di armi” del Sipri: “Gli Stati stanno dando priorità alla forza militare, ma rischiano una spirale di azione-reazione in un panorama geopolitico sempre più fragile”.
Il ruolo strategico al centro del Mediterraneo, tra Europa occidentale e orientale, riserva da sempre al nostro Paese una responsabilità e un peso maggiori, allontanandoci da esempi virtuosi come l’Irlanda, che ha una spesa militare minima (0,6% del Pil). Tuttavia, in Italia – dove scarseggiano i servizi, il sistema sanitario è da anni al collasso, le zone sismiche non sono in sicurezza e i fenomeni climatici estremi sono in aumento –, spendere denaro pubblico in armamenti di ultima tecnologia è un investimento che desta più di un dubbio.
Sabato scorso, davanti alla Sapienza, durante un corteo in sostegno al popolo palestinese, Luisa Morgantini, attivista ed ex vicepresidente del parlamento Europeo, ha detto semplicemente: “Se si producono armi, si farà la guerra”. Sembra assurdo, nel 2024, dovere ripetere un concetto così elementare; ma se gli alleati atlantici hanno per anni inondato i continenti di materiali bellici, non ci si può poi stupire che cresca il numero dei conflitti.
Mentre Meloni chiede a Stoltenberg l’impegno dell’alleanza atlantica sul “fronte Sud”, le enormi portaerei statunitensi, che da decenni galleggiano al largo di Gaeta, potrebbero muoversi di nuovo. Mantenere la pace attraverso le armi è un ossimoro, una contraddizione in termini, e la situazione interna statunitense ne è una prova. La cultura della difesa dovrebbe ripartire da diplomazia, accordi internazionali, mediazione nei conflitti, verso un futuro senza funghi atomici all’orizzonte. Dimenticare il passato, o ricordarlo con lenti prive di empatia verso la distruzione altrui, o con la coscienza di potenti che non rischiano nulla, lascia che i popoli siano esposti all’incursione di droni automatizzati – probabilmente progettati in Italia.