Vada come vada, sotto il profilo giuridico e penale, l’arresto del presidente della Regione, Giovanni Toti, con l’accusa di corruzione, pone probabilmente fine a un sistema di potere che ha governato la Liguria per quasi un decennio. Oltre a Toti, nella retata sono finite altre personalità di spicco del vertice decisionale politico-affaristico che ha contraddistinto un’epoca: Paolo Emilio Signorini, già presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mediterraneo occidentale, oggi direttore di Iren, Aldo Spinelli, potente immobiliarista e imprenditore della logistica, con annesso figlio. Coinvolti anche Francesco Moncada, consigliere di amministrazione di Esselunga, e altre figure minori. Nel mirino degli inquirenti, in particolare, la vicenda della spiaggia libera di Punta dell’Olmo trasformata in privata, e attribuita agli Spinelli dopo una serie di passaggi, e altre concessioni e favori in cambio di finanziamenti ritenuti illeciti. A Toti viene inoltre contestata una serie di accuse, che vanno dall’accesso a carte di credito intestate agli Spinelli fino ad altre regalie ricevute sotto varie forme, e gli vengono attribuiti anche contatti con la mafia per voto di scambio.
In città la notizia ha destato sorpresa. L’elettorato totiano superstite – il prestigio politico del presidente era da tempo in declino, anche per una serie di scelte di schieramento ondivaghe e discutibili, che lo hanno visto transitare per diverse formazioni, dopo avere abbandonato Forza Italia, fino alla creazione di “Noi moderati” – insorge contro la magistratura di sinistra, e parla di un arresto legato alla temperie pre-elettorale.
In realtà, al di là degli aspetti penali e delle strida scomposte di una parte della destra, l’impressione è che siano venuti al pettine i nodi mai risolti della gestione della Regione negli ultimi anni: l’investimento massiccio in comunicazione e in marketing ha a lungo mascherato le carenze sotto il profilo delle proposte. Toti ha proceduto a lungo su un doppio binario: in primo luogo, si è affidato ai grandi eventi e a progetti che sono apparsi dubbi, scarsamente commisurati a una realtà come quella ligure, segnata da un pauroso decremento demografico, da una fuga dei giovani qualificati, da un invecchiamento della popolazione che ne ha fatto la regione più anziana d’Italia. La nuova diga, che prevede un investimento gigantesco di denaro pubblico, è stata contestata anche dall’interno del mondo dello shipping, e ha suscitato inquietudini negli abitanti dei quartieri che saranno direttamente o indirettamente coinvolti dai lavori, prima, e successivamente dal funzionamento delle infrastrutture necessarie per il suo pieno funzionamento.
Il secondo aspetto, meno appariscente – ma forse la componente più importante e solida del “sistema Toti” – è stato un piccolo cabotaggio, un bricolage volto alla costruzione di relazioni personali e istituzionali con il mondo della imprenditoria locale e degli stakeholders, delle famiglie importanti della città. Una commistione di pubblico e interessi privati, che si sono tradotti in nomine, cambi di poltrone e incarichi, conflitti di interesse e maneggi.
Ma chi è Toti? Apparso in Liguria praticamente dal nulla, paracadutato come candidato da Berlusconi, di cui aveva diretto un telegiornale, per la sua resistibile ascesa il giornalista milanese ha sfruttato abilmente una situazione di vuoto di potere, il logorio delle vecchie amministrazioni di sinistra, progressivamente adagiatesi su una gestione dell’ordinario e incapaci di immaginare una svolta per una regione da decenni in difficoltà. Propostosi come alfiere del nuovo, fautore di una gestione manageriale e spregiudicata, supportata da slogan del tipo: “Facciamo di Genova un quartiere di Milano”, Toti è stato instancabile nel proporre affari e progetti, in rapida e continua moltiplicazione, per dare corpo alla promessa di rinnovamento e soprattutto per accrescere la credibilità del personaggio. Così sono giunti i ristoranti, le funivie, i battelli a forma di pesto e mortaio a spasso sul Tamigi; così si sono autorizzati il profluvio dei supermercati, le discusse infrastrutture, le gronde, mentre si allungavano le mani anche sulle banchine portuali.
Toti ha capitalizzato il malcontento che aveva sedimentato l’immobilismo delle paralitiche amministrazioni precedenti e, per quanto sostanzialmente estraneo alle culture e alle problematiche dei territori locali, è riuscito ad affermarsi come un riferimento per i ceti medio-alti, in particolare conquistando seguito nella fascia di età più alta dell’elettorato. Se il suo potere è apparso rapidamente consolidarsi, è però almeno dal 2018 che sono state avviate inchieste sui fondi che imprenditori e portatori di interesse hanno versato alle fondazioni strutturate a matrioska, che hanno finanziato la sua attività politica ed elettorale; così come sono note a tutti le sue relazioni – personali o istituzionali – con noti imprenditori, televisioni locali, Esselunga, WeBuild, Autostrade.
Tocca ora alla magistratura dipanare il filo tortuoso di queste relazioni, stabilendo fin dove arrivava il lecito e dove eventualmente cominciava l’illecito; ma certo non è rassicurante un sistema in cui la politica si lega strettamente a cospicui finanziamenti privati. Quando l’agire politico viene dettato da lobbisti e portatori d’interesse, lo sviluppo di una città e di una regione rischia di diventare ostaggio di società per azioni e comitati di affari, mentre divengono sempre più opachi i fondi ricevuti dai partiti, con le immaginabili conseguenze.
Il “sistema Toti”, nei suoi aspetti legali come in quelli censurabili, è comunque un metodo inquietante di fare politica, autoreferenziale e post-ideologico, votato unicamente alla propria sussistenza e alla propria riproduzione come automedonte politico. Un circolo vizioso che avvelena la democrazia, allontanando i cittadini dal voto e lasciando che le decisioni siano nelle mani di sempre meno persone. In questo senso, come scrivemmo per tempo su queste pagine (vedi qui), hanno lavorato le continue campagne politico-pubblicitarie, che tendevano sostanzialmente a identificare i destini della Liguria con quelli del politico di riferimento. In fondo, un progetto di de-politicizzazione e riduzione della sfera pubblica a mero mercato, con buona pace della partecipazione e dell’elaborazione di un progetto condiviso di sviluppo regionale. Il “sistema Toti” certo non è unicamente ligure, ha conosciuto una serie di riproduzioni e di varianti nel Paese: perciò, se si scoperchia il pentolone Liguria, è evidente che l’eco del botto si sentirà anche altrove.
Ora, nel clamore dell’evento, a Genova c’è già chi prende le distanze: “(…) in fondo è sempre stato un bauscia, un milanese arrogante, un foresto”. Rimane da capire che ne sarà del “gemello diverso”, il sindaco Marco Bucci, che di molti degli indagati è stato compagno di strada e sodale, e che spesso ha trovato una sponda nel presidente della Regione. Come dicevano i latini, l’impressione è che i due personaggi, Toti e Bucci, simul stabunt, simul cadent, o detto altrimenti: finché saranno insieme staranno in piedi, se divisi insieme cadranno.