Nessuno pensava che lo sciopero dei giornalisti Rai potesse essere quello che la vertenza Fiat del 1980 fu per la Federazione dei lavoratori metalmeccanici: uno schianto che rovesciava i rapporti di forza. Ma qualcuno ha cominciato a lavorarci. L’Usigrai, il sindacato unitario che ha tenuto banco in maniera esclusiva fino a oggi, ha confermato il suo radicamento, soprattutto nelle redazioni locali, la poderosa Tgr, la testata più grande d’Italia, con quasi mille redattori; meno estesa l’adesione nei telegiornali nazionali, più influenzati dal governo, dove la nuova sigla gialla, UniRai raccoglie un’area di quadri intermedi, alla vigilia di promozioni.
Ma, al di là della tradizionale guerra dei numeri che segue ogni astensione dal lavoro, il nodo che riguarda tutta la politica italiana è quello di un governo bulimico, che sta facendo incetta di ogni posizione o ruolo nell’ambito dell’informazione, e di un’opposizione che assiste lamentosa, isolando i nuclei di resistenza, come appunto l’Usigrai. Due sono i temi su cui sarebbe opportuna una riflessione di fondo. Da una parte, capire cosa debba essere oggi il servizio pubblico, combinando a una mobilitazione contro l’occupazione da parte di palazzo Chigi, un’elaborazione su una nuova missione dell’azienda, che raccolga e intercetti interessi concreti del sistema Italia nella transizione al digitale; dall’altra, più specificamente, il tema della figura del giornalista, che in questa transizione tutto può fare meno che rimanere eguale a se stesso.
Sono due argomenti della constituency della cultura di sinistra, che ha costeggiato e integrato la questione Rai nella sua idea di welfare, crescendo sulla spinta di una guerra infinita contro le armate berlusconiane, che avevano iniziato la loro strategia politica proprio assediando la centralità del Cavallo di viale Mazzini. Questa cosiddetta guerra dei trent’anni fra Rai e Mediaset ha reso il sindacato dei giornalisti dell’azienda un vero soggetto politico autonomo, in grado di intervenire nei processi di riassetto del sistema, salvaguardando il profilo del sistema pubblico, e garantendo un’agibilità politica e culturale interna sufficiente, anche nelle fasi di stretta politica, come fu il regime del Caf (l’alleanza centrista basata su Craxi, Andreotti e Forlani) o i governi berlusconiani.
Lungo questa parabola, il peso e la pertinenza della tv generalista si è molto ridotto nella determinazione del senso comune del Paese, allentando le forme di pressione che la politica esercitava, benché rimanessero intatti i meccanismi di lottizzazione che le diverse maggioranze hanno sempre gestito. In questa fase finale, diciamo negli ultimi due decenni, la dialettica interna si è spostata dalla difesa del perimetro aziendale all’adeguamento della fabbrica radiotelevisiva al cambio di paradigma tecnologico e sociale, che vedeva la “tv massa” sostituita dalla massa delle tv.
L’Usigrai è così diventato un sindacato di categoria, che ha mirato prevalentemente a difendere lo status quo, basato sulla figura del giornalista-massa, in prevalenza quello delle redazioni locali, a cui garantire tutele e rilevanza. Via via, l’azione sindacale è entrata in rotta di collisione con l’interesse aziendale. In particolare, il nodo fondamentale era la ricomposizione di quel vecchio retaggio della prima Repubblica, cioè la tripartizione, il riconoscimento a ogni area politica (Dc, Psi, Pci) di un pezzo di apparato aziendale (rispettivamente, Rai1 e Tg1, Rai2 e Tg2, Rai3 e Tg3).
Con la scomparsa dei committenti politici quella struttura a canne d’organo, che eccitava un’assurda e controproducente competizione interna, rimaneva abbandonata a cordate e lobby, travestite da aree politiche, per insediarsi al vertice delle strutture produttive. Un sistema che rallentava l’evoluzione aziendale, e ne appesantiva il funzionamento aumentando i costi a dismisura. Il sindacato si è trovato così – da padrino e tutore della difesa aziendale – a diventare il suo principale intralcio, impedendo ogni trasformazione, o almeno quelle poche reali strategie innovative proposte dall’innumerevole schiera di responsabili succedutisi al vertice dell’azienda.
Finché la politica è rimasta affine alla cultura del sindacato, com’è stato per tutta la fase dell’Ulivo, in cui l’intreccio fra ex Pci ed ex sinistra Dc rispecchiava esattamente la matrice ideologica dell’Usigrai, il patto di continuità veniva rispettato, e si rimaneva alle polemiche retoriche sul cosiddetto partito-Rai. Non più insidiose erano le maggioranze berlusconiane. Infatti, gli uomini di Arcore avevano come mandato la difesa dell’azienda di famiglia che, basandosi sulla pubblicità, era del tutto interessata al fatto che la Rai rimanesse dormiente, e non entrasse veramente nel nuovo mercato digitale. Anche qui il gioco retorico fra sindacato e governo si perpetuava in maniera indolore.
Il banco è saltato ora che si sono manifestate, in una tempesta perfetta, due fenomeni tra loro discontinui: cambia radicalmente il modello produttivo e professionale della fabbrica delle news, costringendo i giornalisti a funzioni e competenze del tutto inedite rispetto alla tradizione, grazie all’irruzione di automazioni digitali e dispositivi di intelligenza artificiale; e arriva sulla scena un governo di destra estrema, che pretende di uniformare culture e linguaggi al suo dominio. Un combinato disposto che toglie spazio e riconoscimento al sindacato, e costringe la sinistra ad affrontare un nodo politico e non solo di allarme democratico.
Si tratta, a questo punto, di capire chi rappresenta chi? In questa transizione, quali gli interessi centrali rispetto a cui ricostruire una missione di servizio pubblico? I lavoratori dell’azienda o gli utenti dell’informazione? I difensori del perimetro produttivo di reti e testate, o i fornitori di tecnologie e processi che rendano la Rai un global player nazionale? Il governo punta a occupare quello che c’è, occhieggiando alle imprese digitali estere, a cui fa intravedere ricche commesse da parte di una Rai riformata. Il sindacato, per ora, sembra arroccarsi nella difesa di quello che c’è.
In mezzo, rimane il buco nero di un’autonomia nazionale nel mercato della comunicazione, insidiato dalla guerra ibrida digitale che vede lobby e poteri internazionali interferire nel processo di formazione del senso comune del Paese. Poi, su tutto, incombe il dominio dei proprietari di algoritmi e dati, che stanno asservendo il sistema di produzione delle notizie, imponendo linguaggi e procedure affini ai propri sistemi intelligenti.
In questa forbice, la Rai deve dare risposte immediate, diventando non più una fabbrica di pluralismo, ma un’azienda libera che trovi, nella propria capacità di autodeterminare il modello di digitalizzazione, il contributo da dare allo sviluppo del Paese. Su questo bisogna ricostruire una base sociale sindacale, raccogliendo le nuove figure di confine, redattori e ingegneri capaci di organizzare, allestire e addestrare, i sistemi intelligenti, non solo di eseguirne i dettami. Così come si deve elaborare una nuova idea di welfare digitale, che veda nell’emancipazione dalla morsa dei proprietari delle piattaforme la ragione della propria libertà. Le schermaglie sul modo di nominare i nuovi vertici aziendali sono certo motivate da norme europee, che chiedono un’evidente distanza fra esecutivo e comando del servizio pubblico; ma non possiamo rimanere schiacciati dall’ennesimo ricorso al Tar, mentre mutano la natura e la platea della Rai.