Siamo sicuri che siano il mercato e la finanza gli unici attori dello sviluppo recente? Quanto pesa il ruolo dello Stato nell’economia e da che cosa è determinata la sua funzione? Dai dati risulta che le politiche pubbliche e le scelte di investimento statale sono andate oltre il semplice aggiustamento dei guasti del mercato. E l’antica idea socialista può essere rivitalizzata partendo proprio dallo spazio conquistato dallo Stato? O si deve temere l’avvento di una possibile “dittatura amministrativa”? Sono state le domande principali discusse nel forum organizzato da “terzogiornale” con Massimo Florio (il 23 aprile scorso, nella sede romana della Fondazione per la critica sociale), a partire dal suo saggio contenuto in Ripensare la cultura politica della sinistra. Per Salvatore Biasco, a cura di Maurizio Franzini, Rino Genovese, Enrica Morlicchio (editore Castelvecchi). Alla discussione con l’autore, oltre a Rino Genovese, hanno preso parte Angelo Marano, Maurizio Franzini, Mario Pezzella, Agostino Petrillo, Antonio D’Ettorre, Alessandro Messina, Michele Mezza, Graziana Panaccione. (La prima parte si può leggere qui)
Agostino Petrillo: la finanziarizzazione delle città
Ho trovato molto interessante l’analisi di Florio, ma ho l’impressione che la sua ricostruzione sia un po’ troppo lineare, perché dall’Ottocento c’è stata una presenza che ha condizionato profondamente tutta l’evoluzione della decretazione sociale: basti pensare alla legislazione bismarchiana. Quello che Florio rileva corrisponde alla realtà, ma è anche il frutto di una serie di percorsi tortuosi, di andata e ritorno. Di momenti in cui lo Stato, nei suoi aspetti sociali, è stato alimentato dalla pressione costante che viene esercitata dal movimento operaio in Europa. Pensando alla storia dell’Europa contemporanea, c’è anche da tenere conto di un altro aspetto, che riguarda la risposta, in termini di welfare, ai regimi autoritari che si erano manifestati. A un certo punto è emersa l’idea che qualcosa bisognava concedere, altrimenti ci si ritrova con i fascisti e i nazisti al potere.
C’è stata, insomma, una mescolanza di elementi. È vero, comunque, che c’è stata una certa pressione costante dal basso per un ampliamento degli aspetti della presenza dello Stato. Quanto poi questa presenza sia orientata in senso sociale al bene pubblico, e a quella richiesta di cui parlava Florio di beni di cittadinanza, allora qui forse le obiezioni che gli venivano mosse da chi è intervenuto prima di me hanno qualche fondamento. C’è però l’idea, nel quadro che viene tratteggiato, che il neoliberismo sia un’utopia regressiva. Un tentativo di ritorno all’ordine quando ormai i buoi sono già scappati dalla stalla.
C’è poi un altro aspetto che mi ha colpito. Ed è il riferimento al fatto che una delle frontiere dello Stato socialista riguarda l’economia della conoscenza e della cultura. Mi ha colpito in modo particolare, perché negli ultimi anni ho molto approfondito la questione del rapporto tra cultura e tecnologia. Le attuali condizioni di riproduzione dell’economia costituiscono più uno ostacolo che un supporto allo sviluppo e alla liberazione di un potenziale tecnologico nuovo, frenato dalle condizioni oligopoliste di cui abbiamo parlato in questa discussione. Questa è una cosa che si avverte molto leggendo i contributi che vengono dai grandi guru della Silicon Valley. Si ripresenta costantemente l’idea che le condizioni di riproduzione dell’economia contemporanea pongono vincoli e freni, e che indirizzino la ricerca su binari morti.
Due ultime notazioni brevissime, per quanto riguarda l’ambito delle questioni urbane. Sui trasporti, da tempo è passata l’idea che sia un tema di cui si deve occupare lo Stato. Si tratta di un’acquisizione accettata anche in ambienti neoliberisti. L’altra questione riguarda la rendita fondiaria e la finanziarizzazione della rendita stessa. Qui c’è una chiave esplicativa molto importante di quello che sta avvenendo sul terreno delle città. È proprio la finanziarizzazione della rendita che cambia il quadro: il valore della tua casa non è infatti determinato dalla posizione o dalle caratteristiche, ma dai futures, ovvero da quello che potrebbe valere se quella parte di città dove si trova l’immobile fosse rigenerato, rinnovato, “gentrificato”. Anche qui abbiamo dunque degli spunti molto interessanti.
Antonio D’Ettorre: non possiamo più basarci su un discorso socialdemocratico
Credo che il punto principale riguardi i cambiamenti della dinamica sociale, perché molte cose sono cambiate dai tempi di Marx, anche dal punto di vista della formazione di un’opinione pubblica condizionata dall’azione del movimento dei lavoratori. La democrazia ho ottenuto dei risultati e ci troviamo oggi di fronte al fatto che la spesa pubblica è cresciuta in termini di servizi, scuola, sanità. Dalla fine dell’Ottocento, fino alla metà degli anni Settanta del Novecento, il capitale ha dovuto fare i conti con una pressione sociale. Questa pressione comporta anche dei prezzi, ma la socialdemocrazia ha comunque ottenuto forse più di quello che si poteva sperare.
Oggi però le condizioni sono molto diverse perché abbiamo un potere politico che risiede in organismi extranazionali non eletti (Fondo monetario, G7, ecc.). Abbiamo monopoli industriali che fatturano più degli Stati. Siamo quindi obbligati a ricostruire una dimensione progressiva della trasformazione della società, che non può più basarsi su un discorso socialdemocratico. Anche perché – e lo segnala lo stesso Florio nel suo saggio – alcune parole sono logore. E quando le parole sono logore non funzionano più. Tra l’altro, oggi le condizioni dei lavoratori non dipendono più soltanto dalle ragioni nazionali: è stato calcolato che le esportazioni cinesi a basso prezzo (cioè l’accesso a prodotti economici) hanno permesso una riduzione dei costi per i lavoratori del 30%.
Dovremmo poi cominciare a distinguere tra le diverse forme di capitale. In quello finanziario ci sono, per esempio, anche i fondi pensione degli operai americani e inglesi. Per i progressisti si pone quindi un problema serio di individuazione di elementi di novità, e non credo sia automatico il passaggio a una società diversa, che si costruirà nei comportamenti sociali e nella partecipazione. Insisto: la socialdemocrazia ha ottenuto molto più di quello che potesse sperare, ma oggi siamo in presenza di altri elementi. Per esempio, c’è il fatto che il capitale nei Paesi avanzati deve fare i conti con la pressione sul tema dell’ambiente da parte dell’opinione pubblica. Questo comporta dei costi che spesso si risolvono con l’esportazione all’estero delle produzioni più inquinanti
Alessandro Messina: la colonizzazione degli spazi di socialità
Vorrei, prima di tutto, ringraziarvi per questa riflessione, che si basa su un pensiero robusto. Non essendoci più le ideologie restano i fatti, i numeri, e Florio ci ha portato dei numeri da studiare. Il punto è interpretare questi stock di numeri alla luce di alcune tendenze. Nella piccola prospettiva soggettiva di chi guarda la storia e analizza le tendenze dal 1848, possiamo dire che in questi 176 anni c’è stato un procedere verso i dieci punti di Marx ed Engels. La domanda che mi faccio è quanto siamo dentro, oggi, a un processo di aggiustamento di una tendenza o di cambiamento della tendenza. L’impressione è che il capitalismo abbia capito che per salvare se stesso deve usare delle strategie che non siano frontali. O almeno, ha capito che quando ci ha provato non ha funzionato più di tanto, e allora starebbe aggiustando il tiro anche facendo degli errori. In questo contesto, riesce comunque a occupare gli spazi pubblici. Non si può far digerire all’opinione pubblica una compressione degli spazi democratici, allora si occupano quelli pubblici, quindi il crony capitalism, di cui parlava Maurizio Franzini nel suo intervento.
Voglio però portare qui un’altra riflessione da cittadino che guarda a quello che sta accadendo con i telefonini. Sto parlando del combinato disposto di grandi oligopoli tecnologici privati, social network e mondo digitale, intelligenza artificiale, e quello che succede nelle nostre menti. Non è un caso che tra i dieci punti di Marx ed Engels c’era l’educazione dei fanciulli. E non è un caso che noi oggi abbiamo sempre più difficoltà nel rendere efficaci i processi educativi. Non solo perché l’istruzione pubblica è stata sotto attacco. Ma anche perché gli strumenti di agenzia educativa che avevamo costruito nelle precedenti generazioni risultano oggi molto deboli. Chi ha degli adolescenti in casa credo che capisca perfettamente quello che sto dicendo. Ho incontrato di recente un mio vecchio professore della Sapienza. Mi ha detto che ormai è costretto a fare lezione con i tutorial su Youtube, perché altrimenti gli studenti non lo seguirebbero. Non è allora questione di lamentarsi per come siamo ridotti, ma bisognerebbe riflettere sulla capacità di costruire delle coscienze in grado di contrastare certi fenomeni negativi.
Chiudo parlando di un fenomeno che ho potuto osservare direttamente nella mia esperienza professionale trentennale. Riguarda la capacità del capitalismo di occupare gli spazi di socializzazione. Ho vissuto (insieme agli amici di “Sbilanciamoci” e ad altri) l’esperienza del cosiddetto Terzo settore. Qualcuno vedeva lì l’utopia di reti sociali che si rendevano autonome dalla politica e costruivano pezzi di società migliori, le comunità. Eppure anche questa realtà è stata colonizzata, quasi militarizzata da logiche capitalistiche basate sul mainstream ideologico dell’efficienza e dei precetti neoliberisti. Il risultato è stato lo sfaldamento di quella realtà. Ci sono stati in mezzo poi i grandi shock: la crisi finanziaria, la pandemia, le guerre, la grande inflazione. In tutto questo, Mario Draghi ha svolto un ruolo, e i residui novecenteschi hanno ancora un peso, anche se non saprei per quanto. Ci può piacere o no, ma Draghi, anche se ovviamente sulla base dei suoi interessi, ha svolto un ruolo riequilibratore di tendenze che stavano andando nella direzione opposta. Oggi non vedo una prospettiva di ritorno indietro. Se dovesse arrivare un’altra grande crisi, come saremmo in grado di reagire?
Michele Mezza: chi controlla lo Stato intelligente?
Essendo un giornalista, tendo a parlare più di quello che vedo che di quello che penso. Allora, per farmi capire, userò un linguaggio fastidiosamente apodittico e procederò per titoli. Il primo è questo: uno Stato, senza conflitto sociale, è una dittatura amministrativa, quindi se spende tanto è peggio. Intendo che il ruolo pubblico, sia in chiave legislativa sia economica, non è mai stato di per sé garanzia di un cambio della natura e delle forme dello sfruttamento capitalista. Senza un contrasto politico che incida sulle forme di direzione e ristrutturazione della macchina statale la spesa pubblica è semplice trasferimento di risorse collettive in mano privata. Quello che vedo, come filo conduttore degli ultimi cinquant’anni, è l’azzeramento della dialettica sociale, per cui l’Unione sovietica e la socialdemocrazia vengono svuotate perché viene biodegradato il soggetto lavoro, che non è più un soggetto negoziale, né politicamente spendibile, da Modena a Stoccolma. Lì dove c’era Stato e socialdemocrazia, ora c’è sovranismo neofascista. Uno scenario che mi spinge a chiedermi come possa essere avvenuto questo passaggio. E vedo, prima di tutto, che quello che avviene è legato alla smaterializzazione dei processi e delle relazioni di produzione. Dovremmo cercare di rispondere alla domanda di Alice, che quando vede il gatto la prima cosa che chiede è: chi comanda qui? Per cui oggi mi chiedo: chi comanda? E rispondendo sempre in termini apodittici, dico: è la potenza di calcolo.
Che significa tutto ciò? Basti vedere come si fa la guerra. Cosa c’è più della guerra per capire la trasformazione. Nella guerra lo Stato era centrale. Oggi, invece, lo Stato è un centro di pura committenza sociale. Lo Stato compra, e compra in nome e per conto di chi vende. E quindi qui arriviamo al punto: la spesa pubblica è supporto di un trasferimento di beni pubblici ma non privati. La smart city significa il trasferimento di attività pubbliche in mani private, cioè nelle mani di fornitori di intelligenze organizzate che riclassificano le relazioni sociali.
Allora, da questo punto di vista, dobbiamo dire che lo Stato potrebbe apparire anche come nemico; rispetto alla proprietà monopolista, in questa economia cognitiva di tecnologie psicologiche che controllano individualmente milioni di individui, lo Stato non è un elemento positivo, ma rischia di essere un avversario rispetto a capacità e ambizioni di autogoverno sociale oggi possibili e plausibili, perché, per la prima volta, siamo noi padroni a casa nostra in un’economia basata su una complicità sociale di cui prima il fordismo poteva fare a meno, se non negoziandola di volta in volta. Oggi, invece, queste forme di organizzazione immateriale presuppongono un decentramento che è la vera contraddizione su cui agire per spostare il baricentro da un dominio totale del capitalismo. Non vedo, infatti, grandi crisi del capitalismo. Piuttosto, come dice Warren Buffett, “la lotta di classe c’è e l’abbiamo vinta noi”.
L’asservimento dello Stato a ente di pura spesa sociale per finanziare i livelli di implementazione di queste tecnologie di sorveglianza ne è la pura conseguenza. Da questo punto di vista, il tema su cui dobbiamo interrogarci dovrebbe essere su quali possano essere i soggetti negoziali per animare una dialettica sul punto di produzione del valore, cioè sull’automazione delle relazioni e dei comportamenti, che alcuni chiamano intelligenza artificiale, che però non è né intelligente né artificiale, ma è quanto di più pragmatico e umano ci sia, a partire dalla sua proprietà.
L’uomo è fin troppo al centro di questo processo: pochi uomini – i calcolanti – contro tanti uomini – i calcolati. La scommessa è come i calcolati possano innestare una dialettica sociale. Con i lavoratori? Ma non scherziamo: sono tutti a destra, perché un lavoratore senza socialismo ha come obiettivo il premio di produzione. Anche rispetto alla spesa sociale dobbiamo essere chiari: la spesa sociale sulla sanità e la scuola, di cui Florio giustamente coglie un elemento fondamentale, rappresentano un supporto? No, oggi l’università non è un bene superiore, rappresenta il retrobottega di Google e Microsoft. Il Politecnico di Torino è Microsoft. Il Politecnico di Milano è Google. Anche la sanità è centro di integrazione di tecnologie che ne stanno stravolgendo completamente la gerarchia e l’organizzazione. Nei prossimi due anni, dovranno essere rinnovati tutti i sistemi tecnologici dell’apparato pubblico. La domanda è come questa partita verrà giocata; il fornitore sarà l’ingegnerizzazione dei nuovi cicli, non solo diagnostici ma anche terapeutici.
La domanda vera è: come interferiamo in questi automatismi? Penso che oggi i soggetti negoziali siano soggetti di altra natura che non hanno nulla in comune con quelli della tradizione socialdemocratica. Sono cioè coloro che possano far male all’avversario. E oggi, tra questi soggetti, ci sono per esempio le aree metropolitane, le città, che sono gli snodi di trasferimento di fatturato dal pubblico al privato. Una città può negoziare i propri algoritmi, le proprie memorie e i propri cloud. Questo è un terreno su cui andrebbe costruito un modello di partito diverso. La stessa cosa vale per le categorie professionali e per i centri di ricerca. Ovviamente, questo significa ripensare completamente il modello di quella che veniva chiamata l’indeterminatezza rappresentativa. Chi sono i soggetti sociali in cui radicare una nuova forza politica, se non “anti”, almeno non capitalista? Non basta dire popolo.
Ultime due cose. La prima: il copyright. Una sinistra composta di registi e scrittori è per una difesa parassitaria e reazionaria del copyright. Al contrario, penso che debba essere privilegiato il diritto alla condivisione dei contenuti, non premiato il diritto alla produzione. Per me è una vergogna che dopo trent’anni il copyright su una canzone o un libro debba ancora limitarne l’accesso garantendo una rendita. Questo dovrebbe valere per tutti i contenuti, a partire dagli algoritmi. Sgombriamo il campo dall’idea di Google che quel che è mio è mio e quello che tuo è mio.
La seconda questione riguarda i dati, la vera partita che stiamo giocando. Oggi governare una comunità significa orientarne lo smistamento e la selezione dei dati. Pensiamo solo a quello che sta accadendo a livello elettorale (Cambridge Analytica). Pensiamo anche all’open source. Per la prima volta, nella storia umana, la scelta di socializzare i modelli produttivi è più efficiente ed economicamente conveniente rispetto ad assetti proprietari. Oggi l’addestramento dei sistemi di intelligenza artificiale, mediante una privatizzazione dell’intero ciclo, è insostenibile. Per la prima volta la collaborazione e la partecipazione diventano elementi di efficienza e di competitività. E questo chiude il cerchio, conducendomi all’ultima domanda che vorrei fare. Cosa accade se lo Stato, non controllato dal conflitto, come tecnostruttura diventa intelligente? Diventa efficiente, diventa capace di pianificare e raccogliere elaborazione e determinazione sulla base dei dati di decisione in tempo reale? Lo chiedo perché è un processo già in corso: il fisco, l’agenzia degli appalti, la Consob hanno già integrato risorse di intelligenza artificiale. Ma noi non sappiamo chi sono i fornitori, con quali capitolati tecnici sono state selezionate queste risorse, seppure abbiamo già pezzi di Stato che hanno interiorizzato intelligenze altrui. Questa è un’altra partita che clamorosamente cambierà le nostre categorie sociali e politiche.
Massimo Florio: intervento conclusivo
È stata una discussione utile, di cui farò certamente tesoro. Parto da quello che diceva Michele Mezza sullo Stato, che diventa una dittatura amministrativa senza il conflitto sociale. Questo è sicuro. E percorre poi anche altre cose che sono state dette: Terzo settore, comunità, declino dei partiti, del movimento operaio, la prospettiva storica, le parole logore, eccetera. Registro tutto questo, e capisco che la discussione può avere diversi piani. Primo piano: il modo di produzione asiatico di cui parla Wittfogel, che riprende l’analisi di Marx, si può leggere attraverso i diversi ruoli che hanno avuto le dinastie imperiali cinesi. Ma il modo di produzione asiatico, basato sul controllo delle risorse idriche, è quella roba lì. Da marxista penso che la tecnologia influenzi il modo di produzione e i modi di produzione influenzino i rapporti sociali. Sono anche sicuro che quel modo di produzione (a seconda di come si fanno i conti, se ci si mette per esempio anche l’Egitto dei faraoni) è durato tanto tempo. Ma la lettura del modo di produzione asiatico ci pone su un piano che Marx stesso chiama “astrazione concreta”.
Anche il capitalismo è stato ovviamente determinato dai processi storici e dalle lotte. Come si fa a dire che il capitalismo sia solo un modo di produzione? È tante altre cose. Il problema è che, se si fanno ragionamenti sul superamento del capitalismo, si deve pensarli in termini di modi di produzione, non li si può pensare solo in termini di storia, di tendenze culturali, di preferenze ideologiche. Quindi ripropongo la domanda da cui siamo partiti. E cioè: stiamo assistendo al trionfo del capitalismo, su cui Mezza pare non avere dubbi? Io però non sono d’accordo con le analisi di Toni Negri. Non credo – anche contro ogni evidenza – che viviamo nell’epoca del trionfo del capitalismo come modo di produzione basato sull’accumulazione del capitale da parte di soggetti privati. Se invece preferiamo definire il capitalismo in un altro modo, e quindi anche il socialismo inteso come superamento del capitalismo, allora abbiamo un problema linguistico. Ma è chiaro che se vediamo il capitalismo, per com’è stato definito, cioè un modo di produzione basato sull’accumulazione di capitale astratto, denaro che crea denaro ed espropria le classi lavoratrici, possiamo dire che quel sistema oggi non è trionfante al cento per cento.
La mia interpretazione della crescita della spesa pubblica è che non si può pensare che sia tutta funzionale al fatturato. In altre parole, se tutto fosse riconducibile al procurement pubblico, all’accumulazione di capitale umano che poi viene trasferito al capitale privato, avremmo solo una visione totalitaria di ciò che è successo (Warren Buffett lotta di classe è finita, ecc.). Ma io ho da fare due commenti a questa visione. Il primo commento è: ma che disperazione! Perché, se fosse così, sarebbe meglio dedicarsi ad altre cose rispetto allo studio della società. Bicchiere mezzo pieno, bicchiere mezzo vuoto? Spero almeno di avervi trasmesso questo dubbio, ovvero che si possa leggere quello che è successo in un’altra maniera, e che i terribili strilli dei conservatori, non siano solo l’indizio della loro vittoria. Potrebbero anche essere l’indizio di una loro illusione. Ma se è una loro illusione, dobbiamo capire perché strillano. Ci sono due possibilità. O strillano perché sono scemi, perché abbagliati dall’ideologia, una simmetria ideologica rispetto alla sinistra. Oppure può darsi che siano un po’ più lucidi, più di quanto lo siamo noi stessi. Potrebbe darsi che la storia (l’Urss? il partito socialdemocratico tedesco? il laburismo? il fascismo?) ci abbia consegnato questo oggetto chiamato Stato, che certamente senza conflitto sociale diventa una dittatura amministrativa. Ma possiamo veramente buttarlo via come strumento di un nuovo conflitto sociale? Possiamo pensare che l’unica alternativa si basi sulle comunità che si organizzano dal basso? E allora ne riparliamo tra mille anni. Nel frattempo, facciamo dei monasteri laici in cui sperimentiamo le comunità energetiche locali, il cloud su base municipale? Io penso, invece, che bisogna costruire il grande cloud pubblico in Europa. Un grande cloud pubblico mettendoci dentro qualche miliardo l’anno di investimento pubblico. Quindi il messaggio è questo: se voglio sconfiggere Big Pharma, non lo posso fare andando a cercare qualche piantina. Posso farlo costruendo una grande infrastruttura pubblica di ricerca biomedica, no profit, che possa sfidare Big Pharma. È solo illuminismo? No, è chiaro che dovranno scendere in campo grandi movimenti sociali, di pazienti, di medici, di infermieri, di cittadini che mettano bocca su come spendere cento miliardi stanziati per comprare i vaccini in Europa, e che sappiano incidere sui margini e riequilibrare il rapporto tra interesse pubblico e profitto privato. Ma questo potrebbe essere oggetto di un’altra discussione.
(Fine)