Tre giorni immerso in una comunità rigorosa e disciplinata che allestisce il TedX di Cuneo. Quattro mesi di preparazione e di minuziosa rifinitura dei contenuti e delle forme dell’intervento, per rientrare nel format dell’evento. Sembrerebbe la solita americanata. Tale può apparire, in effetti, e tale sembrava da lontano. Oggi, reduce da quell’esperienza, devo constatare come si tratti invece di un modello di organizzazione e connessione di opinioni e competenze al tempo dell’abbondanza dei saperi in campo. Il Ted è un modo per dare visibilità e vitalità a conoscenze specifiche su singoli temi. Nasce nelle università californiane, alla metà degli anni Ottanta, con l’esplodere della società digitale, quando il sistema top down – da pochi a tanti – che caratterizzava il mercato di massa delle opinioni, dominato appunto da mass media come la televisione e la stampa, comincia a sgretolarsi sotto l’incalzare delle prime ondate di partecipazione molecolare in rete.
Si scompone quindi il blocco della produzione fordista, e l’immaterialità delle nuove modalità di valorizzazione delle merci mette in campo una formicolante moltitudine di individui che mostrano di sapere più cose e di volerle condividere. Non per apparire, ma per accrescere il valore di ogni singola opinione mediante l’integrazione di altre opinioni.
Nel febbraio 1984 – anno che richiama le angosce orwelliane, ma anche quello delle straordinarie innovazioni del personal computer e della rete – Richard Saul Wurman, architetto e graphic designer, e il suo assistente Harry Marks, organizzano a Monterey, in California, una conferenza per parlare di tre tematiche a loro avviso cruciali in quegli anni: tecnologia, intrattenimento e design. In inglese: technology, entertainment, design – da cui l’acronimo Ted. “Mi accorsi – spiega il fondatore – che nel 1984 si stava delineando una convergenza tra tecnologia, industria dell’intrattenimento e professioni del design, ma nessuno si accorgeva che stavano crescendo insieme”. Convergenza dei saperi, digitalizzazione delle forme, partecipazione individuale: sono le tre condizioni che portano, materialisticamente, a mutare il modo di organizzare e trasmettere i saperi.
Nel 1990, dopo l’avvento del web, con la moltiplicazione delle opportunità di relazione e connettività, il Ted diventa un format: otto-dieci esperti, una parola chiave, diciotto minuti per mostrare un modo di interpretarla, una convivialità che permette al pubblico di prolungare con gli speakers i ragionamenti. Due le matrici del modello: le università, dove gli studenti cominciano a produrre più degli insegnanti, e i territori, dove i problemi incontrano le nuove tecnologie.
Il punto di snodo del cantiere, quello in cui il progetto acquista valore, è la selezione degli speakers. Devono portare valore aggiunto, arricchire la visione e la riflessione sul tema prescelto. Soprattutto, ed è qui la magia alchemica del formato, devono costituire un’entità che non esisteva prima: una visione composita e innovativa che si configura, progressivamente, ibridando i singoli contributi.
Dopo decenni di convegni su innovazione e digitale, mi sono trovato, per esempio, a ragionare a Cuneo intorno al termine “metamorfosi”, insieme a figure del tutto eccentriche rispetto alla tradizionale selezione delle competenze tipo. Con me, giornalista, c’erano musicisti sperimentali, agricoltori marini, astrofisici, esperti della lingua per i sordi, doppiatrici, biotecnologhe. Ognuno era un modo di vivere la metamorfosi, e ognuno lasciava in sospeso il suo contributo, in attesa che, con il completamento del programma, potesse intrecciarsi a quello degli altri.
Il quadro finale rimanda a una percezione del tema iniziale assolutamente discontinua rispetto a ogni aspettativa. Soprattutto, mette in campo come valore proprio questa discontinuità. È forse il contributo principale: nessuna tradizione o visione accreditata può sopravvivere al cortocircuito di esperienze, che da lontano convergono sul tema prescelto, dandone una torsione del tutto sorprendente. E nessuno all’inizio può padroneggiare questo tipo di confronto, avendone già in tasca la conclusione.
In molti casi, il tema prescelto è un problema reale – il traffico di una città, la gestione di un museo, l’ottimizzazione di un servizio. In questi casi entriamo direttamente nel campo delle decisioni, con elaborazione e metodologie che non possono essere esorcizzate o ignorate. Stiamo parlando di un modo di organizzare la politica e la pubblica amministrazione, non di diffondere uno spettacolo di alto target.
Più concretamente, ci sarebbe da chiedersi perché non si sia pensato a un Ted per il jobs act, o per la vertenza dell’acciaieria di Taranto a livello sindacale? Perché platee di iscritti e militanti non potrebbero accedere a un confronto istruttorio di esperti e dirigenti per poi decidere collettivamente? Perché un partito non potrebbe immaginare di combinare esperienza di trasparenza nella preparazione di scelte importanti, alla vigilia di elezioni o di voti parlamentari, organizzando una visibilità diretta delle opinioni in campo, e promuovendo su queste una vera ed esplicita consultazione?
Perché tematiche quali, per esempio, il servizio pubblico radiotelevisivo, le strategie tecnologiche, il piano regolatore di una città, non possono essere istruite e predisposte con una serie di format documentativi, in cui opinioni e interessi possano diventare contributi, specifici e disciplinati, per poi condividere, previa un’estesa e documentata alfabetizzazione sui temi trattati, le deliberazioni con la base? Certo, questo metodo implica una cessione di sovranità, un superamento di quella riservatezza e separazione fra decisione e militanza su cui è stata costruita la politica. Ma se non ora, nelle condizioni di diserzione e esorcizzazione di ogni forma di intervento politico di massa, quando?