
È forse passata con una certa noncuranza da parte dei nostri lettori la pubblicazione della prima parte del forum (vedi qui) intorno a un saggio di Massimo Florio riguardante l’intervento statale nel capitalismo contemporaneo. La peculiarità della sua analisi consiste nel portare e discutere alcuni dati che mostrano come, nonostante l’ondata ideologica neoliberista duri ormai da svariati decenni, non si sia affatto invertita la tendenza (tipica di quello che negli anni Sessanta veniva detto “neocapitalismo”) allo statalismo. È questo, di per sé, un motivo di ottimismo circa la possibilità di politiche socialdemocratiche che arrivino non soltanto a regolare i mercati e la loro costitutiva anarchia, ma anche a superare gradualmente il modo capitalistico di produzione e di consumo? Questa è ovviamente una questione controversa. Ciò che è più importante, però, è che dal discorso di Florio emerge una visione nient’affatto sferica, in sé compatta, priva di fessure, del mondo odierno: piuttosto quella di un agglomerato di pratiche economiche perverse – dalla finanziarizzazione con le sue bolle speculative, alla spinta agli oligopoli e alla concentrazione della ricchezza (e del potere) in poche mani – tenute insieme grazie alla funzione pubblica e statale. A dispetto di quanto si sente ripetere sulla perdita di rilevanza della politica nei confronti dell’economia, sul declino irreversibile degli Stati nazionali, ecc., avvenimenti come la crisi del 2008 o la risposta data alla recente pandemia, mostrerebbero come il capitalismo sia del tutto impossibilitato a prendere congedo dallo Stato.
Ora, secondo Florio, ciò porta a concludere che ci sia una propensione postcapitalistica di lungo periodo insita nel capitalismo stesso. È la ripresa di una concezione “strutturale”, cioè non puramente soggettivo-utopica, del discorso sul socialismo: perché, seppure la linea di tendenza individuata non sia ancora quella di un passaggio spontaneo a una società di liberi e uguali, è evidente che gli attori di un conflitto sociale e politico potrebbero fare leva su questo bisogno di Stato, chiamiamolo così, per cercare di soddisfarlo in un senso consapevolmente anticapitalistico.
L’idea di puntare a squilibrare progressivamente il sistema ha una sua tradizione nel movimento operaio; e, anche indipendentemente da una teoria del crollo finale del sistema stesso, una concezione gradualistica basata sulla costruzione di una rete di contropoteri “dal basso”, insieme con quella di un controllo sulla produzione, fu molto diffusa negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ma allora, sebbene si fosse già al canto del cigno, c’erano ancora le fabbriche a costituire, in virtù della notevole concentrazione di manodopera al loro interno, i punti nevralgici di una siffatta ipotesi strategica. Con la perdita di queste possibili “casematte”, con un’impresa sempre più impersonale (dal punto di vista proprietario) e sempre più diffusa sui territori, e con la riduzione numerica della classe operaia propriamente detta, diventa difficile puntare a dei contropoteri a partire dai luoghi della produzione. Perciò, pur senza rinunciare in alcun modo all’associazionismo di base comunque declinato, sarebbe urgente ripensare una strategia “dall’alto”, diciamo così, che consisterebbe nell’utilizzare lo Stato.
Lo stesso ritorno dei nazionalismi in Europa, e da ultimo della guerra, spingerebbe, per contrasto, a formulare una proposta di gestione di un’entità statale di tipo sovranazionale, come sarebbe l’Unione europea, orientata in chiave federalistica a una ridistribuzione del reddito e del potere. Si potrebbe cominciare da un’armonizzazione delle politiche fiscali all’interno dell’Unione. Ma per fare questo ci vorrebbero dei partiti socialisti capaci di riprendere la loro vocazione originaria. Dovrebbero essere anzitutto pacifisti, e quindi mirare a una trattativa che ponga fine alla guerra guerreggiata, se non altro, tra la Russia e l’Ucraina. In secondo luogo, dovrebbero spingere verso l’imbrigliamento degli “spiriti animali” del capitalismo senza preoccuparsi delle presunte compatibilità del sistema. Dovrebbero, in altre parole, fare una politica di anticipazione di una coalizione sociale di interessi “di classe” – pure in assenza di una classe “per sé”, consapevole cioè della propria condizione di asservimento e determinata a emanciparsene.
Come si può vedere, la conclusione cui conduce il discorso di Florio è, ancora una volta, utopica: perché partiti socialisti di quel genere al momento non si profilano all’orizzonte. Ma a essere certo è che – se il discorso intorno allo Stato può avere un senso – ne assume uno, anche più decisivo, quello intorno all’ipotesi di una “forma partito” che in un conflitto sociale oggi disperso, quando non addirittura silente, potrebbe fare la differenza.