Tiro a segno contro Ilaria Salis. La presenza nelle liste di Alleanza verdi-sinistra della giovane insegnante e attivista antifascista italiana, detenuta da oltre un anno in Ungheria per avere provocato una ferita guaribile in cinque giorni, è oggetto di attacchi scomposti, che vanno al di là dei normali dubbi e perplessità riguardo a una sfida che per lei, nel caso non venisse eletta, si trasformerebbe in un boomerang. Oltre ai giornali di regime, che fanno ovviamente il loro mestiere, spicca tra tutti il livore “meloniano” con cui nei giorni scorsi “Dagospia” ha stigmatizzato questa scelta: “Solo in questo disgraziato Paese – sostiene la testata di Roberto D’Agostino – una cacciatrice di nazisti può essere trasformata in un martire della libertà”.
Non mancano confronti fuori luogo con la presenza del sociologo ed ex bracciante, Aboubakar Soumahoro, nelle politiche del 2022, le cui disavventure hanno creato non pochi problemi ad Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, ma che nulla hanno a che vedere con la detenzione di quella che può essere definita una prigioniera politica nelle carceri dell’Ungheria di Orbán: un Paese di nuovo condannato dal parlamento europeo (il 24 aprile) per violazioni dello Stato di diritto, con il voto contrario di Lega e Fratelli d’Italia, il cui governo ha fatto solo passi formali quanto inutili per tentare di farle ottenere almeno gli arresti domiciliari. Non mancano le stilettate a Roberto Salis, che avrebbe rinunciato ai propri ideali di destra per difendere la figlia, fino alla decisione di parlare dal palco dell’Anpi a Roma, in occasione del 25 aprile, dimenticando che un genitore può essere anche disposto a mettere da parte, o a rivedere, i propri punti di vista in un caso drammatico come questo.
Ilaria è cresciuta a Monza. Ventuno anni fa, quando aveva solo diciotto anni, fondava con altri giovani il centro sociale Boccaccio, nell’omonima via dove i nazisti avevano fucilato tre partigiani dopo una notte di torture. Il 18 febbraio del 2017 militanti del centro sociale avevano organizzato una protesta contro un presidio dell’estrema destra, e, per l’occasione, avevano assaltato un gazebo della Lega. Lei, per quell’episodio, venne denunciata ma poi assolta, anche perché nei video è evidente il suo tentativo di riportare ordine in un contesto che era sfuggito di mano agli organizzatori.
Pochi giorni prima dell’arresto, si era recata a Budapest per prendere parte alla protesta di alcuni gruppi antifascisti, provenienti da diversi Paesi europei, in occasione del Tag der Ehre (il “Giorno dell’onore”), un raduno neonazista che si svolge ogni anno in Ungheria, tra il 9 e il 12 febbraio, a cui partecipano membri del movimento britannico Combat18, del partito nazionalista tedesco Die Heimat e del Nordic Resistent Movement, formazione neonazista attiva nel Nord Europa, macchiatasi di diversi crimini, tra cui tre omicidi. Un evento – per ricordare le imprese di un battaglione nazista che, nel 1945, tentò di opporsi all’Armata rossa – tollerato dal regime ungherese, che non ha mai preso alcuna misura repressiva contro questa ricorrenza agghiacciante.
La giornata, la cui organizzazione sarebbe vietata in qualsiasi Paese civile e democratico, ha preso il via negli anni Novanta, dopo la fine del regime comunista. L’idea fu di István Győrkös, un militante ungherese di estrema destra. Condannato all’ergastolo per l’omicidio di un poliziotto, Győrkös, classe 1940, è stato il fondatore e leader del movimento paramilitare neonazista Fronte nazionale ungherese (Mna) attivo dal 1989 al 2016. Nel 1995, si autoproclamava leader unico del movimento con il titolo di Vezető, sinonimo di duce o Führer. Nel pantheon neonazista ungherese trova posto, del resto, il Partito delle croci frecciate (in ungherese, Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom), filonazista e antisemita, guidato da Ferenc Szálasi, a capo di un governo collaborazionista che resse l’Ungheria dall’ottobre 1944 al gennaio 1945. Quando venne fondato, nel 1935, si chiamava Partito della volontà nazionale (Nemzet Akaratának Pártja – Nap, acronimo corrispondente al termine “sole” o “giorno”), e, a causa della violenza delle sue azioni, venne sciolto per essere ricostituito nel 1939 come Partito delle croci frecciate, esplicitamente ispirato al Partito nazionalsocialista tedesco. Il suo emblema consisteva appunto nelle croci frecciate, antico simbolo delle tribù ungheresi, rappresentanti, secondo Szálasi, la purezza della “razza magiara” in linea con il suprematismo ariano. Due “razze” superiori, insieme ai giapponesi, mentre gli italiani non erano annoverati in questo elenco di popoli eletti. Szálasi infine fu processato come criminale di guerra, condannato a morte e impiccato a Budapest il 12 marzo 1946.
Nel contesto descritto, non poteva non trovare spazio l’antisemitismo da sempre presente in quell’area geografica, non estraneo neppure a Orbán e al suo partito, Fidesz. Nel mirino del governo di Budapest, ci sono sempre stati ebrei come il finanziere filantropo George Soros, al centro di teorie complottiste, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Oltre a tollerare l’ingresso nelle scuole di testi revisionisti, in odore anch’essi di antisemitismo, che tessono le lodi di Miklós Horthy, reggente d’Ungheria dal 1920 al 1944, anche lui antisemita e alleato di Hitler, fino al momento in cui al Führer non sembrò troppo infido. In fondo, Ilaria Salis e i suoi compagni combattono contro chi glorifica un periodo buio che in troppi, in questi ultimi anni, tentano di riesumare. Nessuno dovrebbe avere dunque da ridire su qualsiasi tentativo di fare uscire dal carcere una persona come l’insegnante di Monza. Purtroppo, però, il condizionale è d’obbligo in un’Italia dove, nelle stanze del potere, c’è chi rimpiange le “potenze dell’Asse”.