Passato in tono minore, se non del tutto inosservato, sui media nostrani, sempre più isolazionisti e autoreferenziali, l’affaire Varoufakis ha invece suscitato una vasta eco in Germania. Il politico greco avrebbe dovuto parlare al Congresso sulla Palestina di Berlino, previsto per venerdì 12 aprile scorso. La polizia ha però interrotto l’evento due ore dopo il suo inizio, chiudendolo con la forza. Agli oltre duecento partecipanti è stato chiesto di abbandonare la sala in tutta fretta. Il giorno dopo, sabato 13 aprile, durante una manifestazione di protesta contro l’azione della polizia che aveva cancellato il convegno, un alto ufficiale ha reso noto che era stato emessa una misura di restrizione delle libertà politiche, un Betätigungsverbot contro Yanis Varoufakis, e contro altri due degli oratori principali che sarebbero dovuti intervenire al Congresso sulla Palestina.
Il Betätigungsverbot è il divieto di entrare in Germania, ma anche di partecipare a conferenze via video-link o con messaggi registrati, e più in generale di svolgere attività politica. Lo stesso ufficiale di polizia ha infatti specificato che se uno qualsiasi dei tre soggetti colpiti dal provvedimento avesse tenuto un discorso, fisicamente o per via elettronica, le forze dell’ordine avrebbero dovuto sciogliere la manifestazione con la forza. Varoufakis ha in seguito comunicato sulla piattaforma X che gli era stato vietato di parlare con i partecipanti via Zoom. E ha poi postato, sulla stessa piattaforma, un videomessaggio che riassumeva quanto avrebbe dovuto dire a Berlino.
Il fatto è indubbiamente grave. Anzitutto perché Varoufakis non è figura di secondo piano: è attualmente segretario generale del partito paneuropeo Democracy in Europe Movement 2025 (DiEM25), che ha presentato pubblicamente nel momento della sua fondazione proprio alla Volksbühne di Berlino, nel 2016, ed è candidato per questo partito al parlamento europeo; in passato, com’è noto, è stato ministro delle Finanze in Grecia, durante il governo di Syriza, e lo ricordiamo combattivo interlocutore delle massime autorità della Unione europea nel corso della crisi economica greca. Karin de Rigo, la candidata principale della sezione tedesca del partito DiEM, ha dichiarato al quotidiano “Taz” che “siamo determinati a non farci scoraggiare dalle tattiche intimidatorie”. E ha aggiunto: “Difenderemo i diritti dei palestinesi in Germania e, da giugno, anche a Bruxelles. Le azioni delle autorità tedesche ricordano in modo inquietante il periodo più buio della storia tedesca”.
Va anche rilevato che il divieto di svolgere attività politiche è uno strumento usato solo in casi molto particolari. Nel 2014, l’allora ministro degli Interni, Thomas de Maizière, lo aveva impiegato contro la milizia terroristica Stato islamico; nel 2023, il ministro degli Interni, Nancy Faeser, ha emesso un divieto analogo contro Hamas. Gli organizzatori del Congresso sulla Palestina hanno per questo criticato aspramente l’azione della polizia, denunciando che i diritti democratici sono stati minati, come hanno dichiarato in una conferenza stampa. L’avvocato Nadija Samour ha fatto rilevare, a nome degli organizzatori, che la polizia ha preso decisioni del tutto sproporzionate rispetto all’entità e alle caratteristiche dell’evento. Anche a un altro relatore di spicco, Ghassan Abu-Sittah, rettore dell’Università di Glasgow e chirurgo ricostruttivo, che avrebbe dovuto parlare della sua esperienza negli ospedali di Gaza, non solo è stato impedito di parlare, ma è stato vietato l’ingresso in Germania.
Quanto avvenuto a Berlino suscita qualche riflessione sull’aria che tira in Europa. La pressione sui media vecchi e nuovi si va facendo sempre più intensa e aumentano le misure di controllo diretto e indiretto su di essi. Si assiste, inoltre, a una dilatazione del concetto di antisemitismo per colpire chi critica Israele. E in nessun altro Paese la pressione è così forte come in Germania. Ricordiamo che a fine ottobre scorso la cerimonia di premiazione della scrittrice e saggista di origine palestinese, Adania Shibli, è stata cancellata dalla Fiera del libro di Francoforte adducendo come motivo la “guerra iniziata da Hamas”. Il centro culturale Oyoun di Berlino ha subito un taglio dei fondi ed è stato chiuso dopo avere ospitato un evento dell’organizzazione Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East.
La censura delle voci pro-palestinesi è diventata quasi la norma. Di questo clima ha fatto le spese anche la filosofa ebrea americana Nancy Fraser, cui è stato revocato all’inizio di aprile l’invito ricevuto dall’Università di Colonia a causa della sua adesione alla lettera aperta “Philosophy for Palestine”, sottoscritta da oltre quattrocento intellettuali e docenti universitari. La filosofa in risposta, intervistata dalla “Zeit”, ha parlato del diffondersi di una sorta di maccartismo e ha osservato che la questione tocca un nervo scoperto della società tedesca: “Penso anche che sia molto importante che i tedeschi comprendano qualcosa della complessità e dell’ampiezza dell’ebraismo, della sua storia, della sua prospettiva. Stanno in un certo senso sottoscrivendo questa idea di un impegno incondizionato di fedeltà a Israele, che è certo responsabilità tedesca (…). Ma ciò che Israele sta facendo attualmente è un tradimento di quelli che definirei gli aspetti più importanti e consistenti dell’ebraismo come storia, prospettiva e filosofia di pensiero. Sto parlando dell’ebraismo di Maimonide e di Spinoza, di Sigmund Freud, di Heinrich Heine ed Ernst Bloch”. Per Fraser l’aspetto più preoccupante di quanto sta avvenendo in Germania, e decisamente il concetto estendibile a tutta l’Europa occidentale, non è l’estrema destra, ma il prevalere di “quella sorta di centrismo benpensante, dove risiede il vero peso dell’opinione pubblica”.
Se Fraser denuncia il diffondersi di un inquietante unanimismo, certo viene da chiedersi se non sia superare un confine pericoloso anche vietare a una figura come Varoufakis la partecipazione a un evento politico, e quale senso abbia cancellare l’invito a una filosofa perché ha firmato un appello pro-Palestina. E questo avviene in un Paese, come la Germania, certo storicamente obbligato a vigilare sulla questione dell’antisemitismo, ma in cui il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ottiene sempre maggiore consenso elettorale, ed è sostanzialmente accettato dal sistema.
Non si tratta però di una questione solo tedesca. L’intera Europa sembra attraversata dalla tentazione di censurare la parola e la critica politica con il pretesto di proteggere l’opinione pubblica da influenze esterne e fake news, tendenza cui è necessario opporsi con tutte le forze, ricordando magari ancora una volta che sono sempre coloro che lottano per il cambiamento sociale a pagare lo scotto più pesante dell’imposizione della censura.