Le guerre sull’orlo del baratro (che sarebbe poi una deflagrazione mondiale o l’uso di armi nucleari, sia pure tattiche) si vanno moltiplicando a una velocità impressionante. Israele, con un senso dell’avventura bellica per nulla in linea con la “stella della redenzione” da cui pure dovrebbe farsi guidare (vedi qui), avendo colpito l’Iran in una sua sede diplomatica a Damasco, si aspettava una ritorsione – arrivata però più nella forma di un atto dimostrativo, con un lancio di droni e missili, che con un attacco in grado di mordere. Si è trattato quasi di uno spettacolo di fuochi di artificio. Solo che è avvenuto con la consapevolezza di esporsi a una controffensiva israeliana, oggi scoraggiatissima dagli Stati Uniti di Biden, ma probabilmente già in calendario. L’Iran tuttavia sa che una guerra aperta non può permettersela: non ha ancora portato a termine la costruzione dell’arma nucleare, e soprattutto la sua cittadinanza, anche quella che continua a sostenere il regime teocratico, non desidera finire sotto i bombardamenti.
È questo lo sporco gioco psicologico: io so che tu sai che io so; e quello che so è che tu, Iran, hai paura della guerra, anche se non puoi perdere la faccia che comunque stai già perdendo. È il modo di ragionare di Israele. Ma è appunto quello di una politica avventurista. Perché qualcosa potrebbe rompersi, specialmente se ci sarà il contrattacco: e un conflitto regionale, già altamente drammatico, potrebbe estendersi. Le milizie filoiraniane degli hezbollah, che a loro volta hanno mostrato finora di non volere trascinare il loro tormentato Libano in una guerra aperta, si troverebbero a intensificare i loro attacchi – e a quel punto, con il coinvolgimento del Paese dei cedri, la coalizione militare islamica, evocata a parole dagli ayatollah iraniani, sarebbe a portata di mano.
Diciamo che Israele gioca in primo luogo sulle divisioni nel campo avversario. L’islam, come sappiamo, è tutt’altro che una realtà monolitica. Ma, d’altro canto, pur con le grosse preoccupazioni di Biden (soprattutto in vista di una sua difficile rielezione), gli Stati Uniti e l’Europa stanno per definizione dalla parte di Israele: perché, a differenza di ciò che talvolta gli ebrei credono o fingono di credere, l’antisemitismo resta una macchia così vergognosa sulla coscienza occidentale che si preferisce essere filosionisti, perfino tolleranti con le sue peggiori espressioni, pur di non passare per antisemiti. L’attuale dirigenza israeliana gioca in secondo luogo su questa cattiva coscienza, conducendo sull’orlo del baratro non solo se stessa ma anche i suoi, in fin dei conti acquiescenti, alleati.