(Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2024)
Cosa avrebbe detto Eugenio Scalfari (di cui si ricordano in questi giorni i cento anni dalla nascita, tra l’altro con un monologo di Stefano Massini in scena nelle principali città italiane) della crisi del suo giornale? Come avrebbe potuto evitare il confronto fra l’attuale proprietà della testata e quella “razza padrona” da lui descritta, con Giuseppe Turani, negli anni Settanta in un fortunatissimo libro? Sono domande che galleggiavano nella redazione del quotidiano romano, mentre, mestamente, i più di trecentocinquanta giornalisti votavano la sfiducia al direttore Maurizio Molinari.
Per la prima volta, il giornale fondato da Scalfarti, e diretto poi da Ezio Mauro e Mario Calabresi, ha visto deflagrare una drastica rottura al vertice, con più di due terzi del corpo redazionale che ha ritirato la fiducia alla direzione. Il casus belli, come si sa, riguarda una palese intrusione nella gestione editoriale della proprietà, guidata dalla famiglia Elkann, titolare della finanziaria Exor che custodisce i gioielli dell’eredità di casa Agnelli, e che nel 2019, rilevò la Gedi, il gruppo editoriale allora forte di una flotta di circa una ventina di testate locali attorno alla portaerei “Repubblica”.
In particolare, il direttore Molinari, secondo quanto denunciato dai redattori, avrebbe sostituito un pezzo di copertina sui rapporti industriali fra Italia e Francia del supplemento economico “Affari e finanza”, su diretta richiesta degli Elkann che sono soci del gruppo, appunto italo-francese, Stellantis. Un pacchiano conflitto d’interessi, alla maniera di Berlusconi, per intenderci, contro cui aveva tanto combattuto Scalfari. Un atto grave, che lede principi fondamentali della deontologia professionale, e giunge al termine di uno stillicidio in cui il gruppo Gedi si è ridotto ormai alla gestione di solo due testate, “la Repubblica e “La Stampa”, dopo avere ceduto tutto il grappolo di giornali. Un ridimensionamento che prelude ad altre sorprese. Da tempo, infatti, si parla a mezza bocca di una possibile vendita proprio della portaerei del gruppo. Nei mesi scorsi i vertici della Gedi avevano già alienato l’intera sezione digitale, vendendola ai consulenti dell’impresa Accenture. Una mossa sorprendente: cedere il segmento strategico, su cui poggia lo sviluppo futuro della testata, non può che indicare una strategia di liquidazione, o almeno di forte ridimensionamento. Ed è proprio qui che batte il martello dei giornalisti: dove ci volete portare – chiedono –, dopo che da anni, periodicamente, vengono liquidati con costosi pre-pensionamenti intere sezioni della fabbrica del giornale?
Le vendite di quella che era arrivata a essere la testata guida del panorama giornalistico italiano, superando lo stesso concorrente storico “Corriere della sera”, con più di 850mila copie, sono in pochi anni ridotte a un decimo. Resiste il mercato digitale, che rende enormemente meno, e costa non poco in personale e servizi specializzati.
Ma il ragionamento da fare, in sede politica, è un altro. “Repubblica”, come tutti sanno, è stato il giornale-partito che, in diverse occasioni, ha affiancato le formazioni della sinistra, in particolare il Pci, nel “dare la linea”. Un giornale che aveva ereditato – con uno straordinario istinto editoriale, da parte dei due promotori di un progetto che nel 1976, anno di nascita, sembrava disperato – i lettori di sinistra, incrementando il mercato con un innovativo linguaggio più giovanile e sbarazzino, senza per questo perdere il primato sulla cultura liberal del Paese. Leggendo il primo piano editoriale di Scalfari e di Caracciolo, proprietario dell’“Espresso”, che inizialmente supportò da solo l’impresa, sembrava di leggere uno dei capitoli di quel geniale saggio di politica, travestito da novella, di Italo Calvino: La giornata di uno scrutatore. In particolare quando l’autore, con le sue magiche metafore, usa l’esperienza di un intellettuale militante di Torino durante le elezioni del 1953, quelle sulla “legge truffa”, per descrivere l’alchimia intorno a cui si fondava il partito togliattiano. Scrive Calvino: “In quegli anni in Italia il Partito comunista s’era assunto, tra gli altri compiti, anche quello di un ideale, mai esistito, Partito liberale. E così il petto d’un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un intransigente rivoluzionario e un liberale olimpico. Più il comunismo mondiale s’era fatto, in quei tempi duri, schematico e senza sfumature nelle sue espressioni ufficiali e collettive, più accadeva che, nel petto di un singolo militante, quel che il comunismo perdeva di ricchezza interiore, uniformandosi al compatto blocco di ghisa, il liberale acquistasse in sfaccettature e iridescenze”. Parole che descrivono in poche righe un possente processo di ambiguità socio-politica, che portò quel partito – la Giraffa, lo definiva Togliatti, per la sua vista lunga, oltre l’orizzonte – a proporsi come partito della nazione.
Scalfari raccontò e in molti casi concorse alla fusione del blocco di ghisa dell’ortodossia comunista, valorizzando le iridescenze di una cultura modernista e metropolitana, che avrebbe egemonizzato la strategia della Giraffa. Dai diritti civili al compromesso storico, all’attenzione alle compatibilità economiche, dalla lotta al terrorismo e al rifiuto di ogni trattativa per Moro, alla famosa intervista con cui Berlinguer liquidava la spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico, all’ostilità senza quartiere al craxismo, a cui si preferivano le nebbiose locuzioni demitiane, fino alla svolta di Occhetto nel 1989 e alla grancassa su Mani pulite, che avrebbe portato all’interminabile ventennio berlusconiano, in cui gli eredi di quello scrutatore degli anni Cinquanta perdevano la bussola, mentre il giornale-partito trovava una missione attorno a cui raccogliere tutte le Ztl del Paese: una barriera contro i barbari del consumismo populista.
Poi inizia, per rimanere a Calvino, la “grande bonaccia” del passaggio di secolo: il giornale sperimenta direttamente la fine della spinta della cultura liberal-comunista e perde il filo del dialogo con le nuove generazioni digitali. In pochi anni – seguendo la generale eclisse dell’editoria cartacea, che “Repubblica” accentua con una propria incapacità di adeguare i linguaggi ai nuovi alfabeti istantanei e multimediali – l’inesorabile declino. Si rattrappisce una base sociale che segue percorsi di modernizzazione diversi. L’illuminismo azionista che Scalfari coltivava come marketing strategico non trova più interpreti.
Il giornale diventa il testimonial della crisi del partito americano, nel senso di quel filone di culture e interessi che guardava costantemente all’interpretazione di diverse forme di kennedysmo come stella polare. Le guerre arabe, con i miseri sotterfugi delle diverse leadership statunitensi, compreso il mitico Obama, hanno frantumato il blocco del liberalismo atlantista. Sul fronte interno, la radicalizzazione sovranista e leghista del ceto di piccole e medie imprese di quel triangolo che Aldo Bonomi chiama “Lover” (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) ha sottratto alle vendite una parte cospicua. Ma soprattutto ha spiazzato il giornale nelle sue geometrie politiche: a chi rivolgersi per riprodurre lo “scrutatore” liberal in economia e comunista nelle emozioni?
Siamo oggi al passaggio finale: le peripezie delle ormai innumerevoli leadership del Pd, unico partito titolare a sinistra, hanno fatto sbiadire l’aura del king maker, che comunque la testata aveva conservato dopo il 2000. Dopo Veltroni, la segreteria di quel partito non ha avuto più bisogno di sapere prima il titolo di apertura del giornale per stare sul pezzo. Grillo ha dato poi il colpo finale, sia devastando il mercato, togliendo dalle edicole quelle figure di tecnici e insegnanti che scaricavano la loro voglia di opposizione comprando “Repubblica, e poi indicando un altro medium con cui esprimersi, sia sulla prospettiva politica, schiacciando il Pd in un angolo senza alleanze e senza la necessità di consiglieri. Il “campo largo” è stata l’ultima speranza di cui “Repubblica” era bandiera. Ma anche stavolta il principe si è trovato senza popolo, a denunciare le nefandezze di un destino cinico e baro. Ora tocca alla “razza padroncina”, quella dei fratelli Elkann, di cercare un epilogo a questa storia, che conferma come siano i rapporti di produzione – stando a quel concreto poeta che era Bertolt Brecht – a decidere di struttura e sovrastruttura. Il resto seguirà.