Come tutte le cose della vita, anche i “partiti utopici” si corrompono. In Italia ne abbiamo avuto una prova con la morte ingloriosa dei partiti socialista e comunista, finiti entrambi – sia pure in modi diversi – nella pattumiera della storia (per usare un’espressione d’antan). A corrompersi per primo fu, com’è noto, il Partito socialista. Dopo il 1956 e l’invasione dell’Ungheria, c’erano di sicuro delle buone ragioni per prendere le distanze dal mondo sovietico, rivendicando un’autonomia dai comunisti; ma dopo i primissimi anni in cui la collaborazione con la Dc di Fanfani diede qualche frutto in termini di riforme (in primis con la nazionalizzazione dell’energia elettrica), il trantran successivo, all’interno di una formula di centrosinistra prolungata oltremisura, rese quell’antico e nobile partito un insieme di correnti o di potentati per lo più a sfondo clientelare.
Il divo Craxi, evitando qualsiasi riforma e portando alle estreme conseguenze negli anni Ottanta un processo di corruzione già in atto, fece del Psi il partito degli affari suoi e di quelli di alcuni imprenditori rampanti, precipitando di fatto il Paese nelle grinfie di Berlusconi, come si vedrà negli anni successivi. Se oggi Sasà Gallo, un ottantacinquenne già amico di Craxi e Giusy La Ganga (suo proconsole in Piemonte, sul cui cognome, a suo tempo, non si smetteva di ironizzare), può ancora controllare i voti di una parte del Partito democratico, è perché viene da quell’ottima scuola in cui il voto di scambio, se non peggio, era prassi comune.
Diversa la storia del Partito comunista – ma con un finale altrettanto infelice. La domanda che i nostalgici laudatores temporis acti preferiscono non porsi è la seguente: come mai quel partito, fondato da Gramsci e da altri militanti senza macchia, ha potuto produrre la mediocrità di un ceto politico che lo ha condotto nella morta gora del Pd, un organismo privo di qualsiasi tensione utopica e di qualsiasi identità che non sia quella del “partito feudale” descritto da Antonio Floridia (vedi qui)? La risposta è semplice. Fino a quando resisteva, sia pure molto indebolito, il mito della rivoluzione russa, questo partito poté vivere di rendita; ma con la fine dell’Unione sovietica, nonostante i distinguo introdotti da Berlinguer, non seppe vivere di vita propria. Eppure poteva pur esserci qualcosa che non si riducesse all’attuale Partito comunista francese e non si cacciasse, al tempo stesso, nella melma di un Partito democratico privo di aggettivi.
Il corrompersi dei partiti socialista e comunista in Italia, la dissoluzione del loro patrimonio ideale, non è però qualcosa che non possa preludere a una rinascita. Un fondo utopico resiste comunque: è il portato, infatti, di condizioni oggettive e di aspirazioni che, prima o poi, nelle mutate circostanze, possono riemergere. Tutto sta a non lasciarsi accecare dalle vicende della cronaca, collocando ogni situazione in una prospettiva di non brevissimo periodo. Non è affatto ancora terminato il logoramento e il lavorio di ciò che oggi chiamiamo “sinistra”. Altre scissioni e ricomposizioni si profilano all’orizzonte. Che ciò possa contribuire, di per sé, alla formazione di un nuovo partito del socialismo non è detto. Ci vorrebbe, infatti, che qualcosa contemporaneamente si agitasse nei rapporti sociali. Ma l’intero quadro politico italiano intanto è in movimento. E la pur indispensabile opposizione al governo delle destre, con la necessaria proposta di un minimo di alternativa, non dovrebbe farci dimenticare che esiste una politica dei tempi più lunghi.