“L’indeterminatezza della rappresentanza”: questo concetto (che appare ora in Ripensare la cultura politica della sinistra, a cura di Maurizio Franzini, Rino Genovese, Enrica Morlicchio, edito da Castelvecchi), attraverso cui il compianto Salvatore Biasco individuava le debolezze della sinistra italiana, in questo primo scorcio del Ventunesimo secolo, offre una chiave per interpretare le apparenti frivole baruffe fra Pd e 5 Stelle. Una saga che si rinnova ormai con regolarità alla vigilia di ogni elezione, tanto più quando, come nel caso delle prossime consultazioni europee, il meccanismo seccamente proporzionale eccita la vanità e il corporativismo delle diverse formazioni. E proprio la cronicizzazione del dissidio dovrebbe spingerci a un ragionamento più di fondo.
La constatazione di Biasco sulla “indeterminatezza della rappresentanza” sollecita a riflettere, marxianamente, sulla base sociale delle due organizzazioni – e sulla griglia di interessi e rappresentanze che individuano la constituency sia del partito guidato da Elly Schlein sia del movimento di Giuseppe Conte. Quale società vogliamo rappresentare? Quali ceti sociali, quali figure professionali? Sono i quesiti che poneva il prestigioso economista, rimasti ancora senza risposta.
Faremmo davvero un errore, culturale prima che politico, a leggere, com’è ormai consuetudine, la conflittualità politica a sinistra come effetto di tatticismi di gruppi dirigenti, o, ancora peggio, come l’effetto di caratteri tra loro incompatibili. Moro avrebbe parlato di “convergenze parallele”. Ma sarebbe forse il caso di tornare ai fondamentali di quel materialismo che ha permesso al movimento del lavoro, nei due secoli che abbiamo alle spalle, di decifrare con grande precisione e rigore i processi sociali, e di interpretarne gli effetti sulle dinamiche politiche. Almeno fino a quando la fabbrica è rimasta al centro della scena, e il fordismo ha reso funzionale la cassetta degli attrezzi del marxismo del Novecento.
Il cambiamento della scena socio-produttiva, con una repentina transizione da un’economia manifatturiera a una immateriale, in cui si produce valore mediante informazione, come sostiene Manuel Castells, ha sconvolto l’incanto culturale delle organizzazioni politiche del movimento operaio. La scorciatoia imboccata dalle formazioni più moderate, come da quelle più radicali, è stata la cosiddetta “autonomia del politico”, teorizzata ai massimi livelli dallo scomparso Mario Tronti. Supplire a una “indeterminatezza della rappresentanza” con una fuga nelle istituzioni, trasformando un progetto di cambiamento dello Stato e dei meccanismi economici in una pura competizione di governabilità, ha portato, nelle sue degenerazioni locali, il Pd a essere identificato come partito del governo a tutti i costi, anche a condizione di raccattare per strada ogni forma di sostegno elettorale, come periodicamente emerge alle diverse latitudini regionali.
Dunque, il nodo è capire quale sia la base sociale, la piattaforma degli interessi materiali in cui è radicato il partito, e come questo radicamento possa relazionarsi con quello del movimento fondato da Grillo e da Casaleggio. Non dobbiamo dimenticare, infatti, quale sia la natura intima dei 5 Stelle: un movimento animato da ragioni profondamente populiste e antipolitiche, versatile nella sua ispirazione culturale ed estremamente sensibile a mobilitazioni anti-elitarie: il che lo rende naturalmente disponibile a ogni suggestione plebiscitaria e sovranista.
Le due identità sono la conseguenza di due processi di rappresentanza sociale. Il Pd è sempre più “partito di persone”, ossia formazione di ceti urbani e professionali identificabili per una istintiva difesa dei propri diritti individuali, il cui combinato disposto li colloca in un fronte generalmente liberal, con ambizioni di governance competitiva rispetto alla destra. È il Pd delle grandi città o dei distretti tecnologici dell’Appennino tosco-emiliano, ma anche di intraprendenti corsari delle preferenze, come stiamo vedendo perfino in Piemonte. Ne viene fuori un partito che usa della propria scia storica – l’eredità del riformismo cattolico e della militanza comunista – come un puro logo promozionale, dietro cui federare le ambizioni dei “cacicchi” locali. Ma siamo ancora a un livello superficiale: un partito che fa surfing su ogni onda che sopraggiunga, cavalcata ma mai guidata. Più che all’autonomia del politico, siamo all’autonomia degli eletti.
Sul fronte opposto, la galassia grillina, che Conte sta riplasmando con una qualche alchimia opportunistica, si trova, molto più dello stesso Pd, a dover declinare le singole scelte elettorali con una vocazione della propria base sociale estremamente marcata e inossidabile. Parliamo proprio di quelle “stelle” che sono la ragione sociale di questa ditta, e che vedono la capacità di raccogliere consensi solo se l’identità del movimento rimane distinta da ogni omologazione istituzionale. Non a caso, la storia delle alleanze fra democratici e grillini vede affermarsi l’intesa quando, prevalentemente, i candidati hanno una matrice esterna ai partiti, oppure sono dichiaratamente di provenienza del movimento. La Sardegna insegna. Mentre, quando si tenta di imporre la tradizionale cabala politica, per cui il partito prevalente propone il candidato, il cavallo grillino rifiuta l’ostacolo.
Non è solo una tattica di logoramento e di competizione, che vede Conte cercare di subentrare al partito del Nazareno. La base sociale dei grillini si tiene proprio grazie a questo incantesimo: essere guastatori e irregolari persino quando si sta a Palazzo Chigi. Stiamo parlando di un elettorato composto da figure professionali subalterne, impiegati o funzionari di piccole e medie imprese di servizi, con una certa densità di pratiche digitali, che contrappongono costantemente la velocità delle attività aziendali alle lentezze e pastoie delle pubbliche amministrazioni. Un sottile ribellismo antistatalista che li rende contigui, culturalmente, alla destra leghista, con cui rimane un filo di telepatica intesa, come abbiamo visto anche durante le ultime schermaglie.
In questo quadro, dovrebbe dominare la politica, non la furbizia occasionale. Si tratta di lavorare con una ingegneria sociale di lunga lena, con cui mettere mano alle questioni fondamentali, quali l’idea di Stato nel processo di digitalizzazione, il ruolo della sussidiarietà locale, una forma partito che coinvolga direttamente i militanti nei processi decisionali. Parliamo di una vera rivoluzione culturale che rimetta la sinistra alla testa di un processo di rinnovamento della politica e delle istituzioni, costringendo le formazioni collaterali a inseguire.
Ovviamente si tratta, come in tutte le rivoluzioni culturali, di bombardare il quartiere generale. E ci rendiamo conto che questo non lo possiamo chiedere agli attuali generali. Né del Pd né grillini. Ma ci saranno sergenti e caporali che, dinanzi allo sfacelo che si annuncia, avranno almeno l’istinto della sopravvivenza?