
È possibile trarre qualche insegnamento dal disastro che sembra profilarsi a Bari per la sinistra, in vista delle elezioni comunali? La vicenda merita di essere analizzata senza scadere nella chiacchiera politicistica a cui viene ridotta dalle cronache e dai commenti dei maggiori quotidiani. Le questioni che possono essere sollevate riguardano due aspetti diversi: le condizioni in cui si trovano le due maggiori forze che dovrebbero costituire l’asse di una possibile alternativa alla destra, ossia il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico, i loro rapporti e la possibile evoluzione del nostro sistema politico.
Cominciamo dai 5 Stelle. La scelta di rottura fatta a Bari, facendo “saltare” le primarie con il Pd, che erano state faticosamente concordate, ha una semplice chiave di spiegazione: Conte ha un compito molto arduo davanti a sé, che è quello innanzitutto di “tenere” e mobilitare il proprio elettorato. Tutte le elezioni comunali dello scorso anno, e quelle regionali di quest’anno (comprese, si badi, quelle sarde), hanno confermato drammaticamente la fragilità e la volatilità dei consensi che ottiene il movimento. Da tre a quattro quinti di voti in meno rispetto alle politiche. Nondimeno, tutti i sondaggi, in modo convergente e da molti mesi, mostrano un dato stabile nelle intenzioni di voto nazionale (intorno al 15-16%), cioè un dato vicino al voto del 25 settembre 2022. I 5 Stelle non riescono a “capitalizzare” i consensi virtuali che i sondaggi continuano ad assegnare loro. Le ragioni non sono solo legate a un debolissimo radicamento territoriale – quello di Conte è oggi il partito più “personale” sulla scena politica, che vive essenzialmente grazie all’esposizione mediatica e alla popolarità del leader –; ci sono anche quelle più profonde, che rimandano alla cultura politica di questi elettori: volatili,dalla debole identificazione partitica, poco interessati al “gioco politico” e alla politica locale, con ancora i segni della stagione originaria del “non-partito”, nato dal profondo distacco e dall’ostilità nei confronti dei partiti mainstream, specie di quelli, come il Pd, che negli ultimi dieci anni sono sempre stati visti come l’espressione dell’establishment.
Le mosse di Conte – sia quando si mostra più dialogante con il Pd, sia quando sceglie gesti di rottura come quello barese – sono dettate da un vero e proprio assillo, che forse non traspare ai più, ma che sembra evidente: l’assillo di “salvare” e rassicurare questi suoi “infidi” e sospettosi elettori, che rischierebbero di “scappare” a gambe levate se solo si proponesse loro un qualche accordo di ferro con il Pd, specie in realtà locali, dove l’antico contenzioso polemico è molto forte (per esempio, in Piemonte). Almeno questa sembra la logica che sta ispirando Conte: ma funzionerà, in particolare, alle prossime europee?
Lo vedremo, ma è lecito avanzare non pochi dubbi: e questo perché il Movimento 5 Stelle, dopo essere stato partito di governo, e dopo l’esperienza del governo giallorosso, ha perso l’originaria natura trasversale, non è più percepito come un partito anti-sistema, ma come un partito, sia pure sui generis,“progressista”. E allora può essere credibile e produttiva questa strategia di ritorno a un’identità originaria? Come può esserlo, per esempio, nella stessa Bari e in Puglia, dove i 5 Stelle rompono strumentalmente una coalizione con un Pd locale che si stava rinnovando, mentre, nel contempo, un suo esponente continua tranquillamente a sedere nella stessa giunta regionale di Emiliano, in cui operava l’assessora ora indagata? La risposta sarà nelle urne dell’8-9 giugno; quel che è certo è che è una narrazione infondata quella che legge nelle mosse di Conte l’obiettivo di togliere voti al Pd: il problema di Conte è esattamente l’opposto, salvare i propri voti.
La situazione pone non pochi problemi anche al Pd e alla sua segretaria. E sono di due tipi: elettorali e politico-organizzativi. Sul piano elettorale, anche il Pd è sostanzialmente fermo da molti mesi nei sondaggi, sebbene le liste di partito siano andate relativamente bene alle regionali (ma rispetto a un picco in basso molto forte). Il guaio, per il Pd, è che non sembra proprio avere grandi margini di espansione elettorale: sarà già un successo alle europee conservare il 19-20% dei voti (ricordando che, nel 2019, ottenne sì il 22,7%, ma era un Pd che aveva ancora dentro Renzi e Calenda). E non li ha perché l’immagine del partito si è profondamente deteriorata: del resto, non si perdono a caso, in dieci anni, sei milioni di voti. Si è trattato di un cedimento strutturale, una drastica contrazione di quella che, nella scienza politica, si definisce constituency:la base sociale e territoriale del consenso a un partito.
Non sarà facile ricostruirla: nel migliore dei casi, è un lavoro di lunga lena. E qui veniamo al secondo aspetto: questo lavoro, purtroppo, e in sostanza, non è ancora iniziato. Il discorso riguarda quello che, illo tempore, si diceva lo “stato del partito”. Le primarie dello scorso anno si sono svolte all’insegna della “costituente del nuovo Pd”, ma questo nuovo Pd si è visto solo, e parzialmente, in alcune scelte politiche e programmatiche della segretaria. Per il resto, il Pd è ancora quello di prima: un aggregato di potentati locali che ha il solo obiettivo di gestire equilibri e postazioni di potere.
Quello che si può rimproverare a Elly Schlein non è di non aver fatto ancora “piazza pulita” (va riconosciuto che ci ha provato in qualche caso, per esempio con il commissariamento del partito in Campania): ma semmai di non avere avviato quel processo di riforma strutturale del modello di partito che è la premessa stessa di un’opera di “pulizia”. E il problema non riguarda tanto i casi, più o meno frequenti, di fenomeni che finiscono sotto l’occhio della magistratura: il problema tocca profondamente la struttura stessa del partito, la sua governanceordinaria. Il caso di Bari può essere ascritto, in parte, ai classici fenomeni di trasformismo meridionale; ma nubi tempestose si addensano anche a Torino, dove – a quel che se ne sa – mezzo Pd è controllato da un oscuro personaggio, ignoto alle cronache politiche nazionali, che ha messo su una ramificata e potentissima macchina clientelare. Come abbiamo detto e analizzato in altre sedi, il modello attuale che regge il Pd è un modello insieme plebiscitario e feudale. Fino a quando non si cambia alla radice questo assetto, il partito nelle sue realtà locali, non potrà cambiare: è un partito bloccato, inchiodato in un circolo vizioso.
E non è solo una questione “organizzativa”: il partito, così com’è, è una macchina arrugginita, col motore inceppato: funziona come un canale di autoriproduzione di un ceto politico, non certo come uno strumento di elaborazione collettiva e di iniziativa politica. Con un unico risultato: quello di scaricare sulla segretaria tutto il pesante onere di dire quale sia la “linea” su tutto lo scibile, in presenza di un partito che non è più nemmeno abituato a discutere e non è attrezzato per chiarire quale sia la propria identità politica e programmatica. Dopo le europee Elly Schlein dovrà provare ad avviare questo processo di radicale rinnovamento: altrimenti resterà stritolata. I tempi ormai stringono.
Infine, cosa ci potrà attendere da qui alle elezioni politiche previste nel 2027? Poco o nulla. Servirà poco scrutare ossessivamente il barometro dei rapporti tra il Pd e i 5 Stelle. Ci sarà una continua alternanza di tensioni e distensioni. Certo, molto dipenderà dall’esito delle prossime elezioni, e anche da altre variabili decisive: in particolare, l’eventuale referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo. Ma infine una domanda va rivolta a tutti i protagonisti, e anche a tutti i petulanti commentatori che stanno lì a biasimare la presunta subalternità del Pd verso i 5 Stelle: come pensate di venirne a capo, posto che rimarrà l’attuale legge elettorale? Ci sono alternative concrete a una qualche intesa, anche solo elettorale, tra tutte le forze di opposizione?
Alla fine, il nodo sarà questo, ed è un vero delitto non cominciare a pensarci, e farlo in tempo. Poco meno di un anno fa, in un articolo sul “Mulino”, che ebbe l’onore di provocare una levata di scudi di Bonaccini (vedi qui), avevo prospettato due scenari: o la paziente tessitura di relazioni unitarie, le più larghe possibili, o la “guerra di tutti contro tutti”. Al momento, questo secondo scenario sembra prevalere: va riconosciuto che Elly Schlein, esponendosi a una violenta campagna denigratoria, finora ha tenuto il punto, con un atteggiamento unitario (che peraltro ha una lunga e nobile tradizione: lo si insegnava anche nelle scuole di partito, ai tempi del Pci, che una reale “egemonia”, in senso gramsciano, la si esercita solo e sempre “facendosi carico” delle domande e delle aspettative di altri e di istanze più generali), ma occorre che anche altri adottino comportamenti conseguenti. Una battaglia all’ultimo voto, per conquistare posizioni di forza da cui poi trattare, è una strategia pericolosa, sia che a essa pensi il Movimento 5 Stelle sia che lo facciano settori del Pd, sobillati dalla “grande stampa”. In fin dei conti, non ci sarebbero vincitori ma solo macerie.