“In un angolo solitario delle montagne, all’ora della preghiera mattutina giaccio disteso. A lungo, insanguinato (…). Uomo della mia gente, scrivi la mia storia così com’è. O la crederanno una favola. Non sono capezzoli rosati. Ma la pallottola. Fatta a pezzi nella mia bocca…”. In questi versi di Ahmed Arif, tra i principali poeti curdi di lingua turca del Novecento, pubblicati nel febbraio scorso dalla rivista “MicroMega”, si legge la sofferenza di un popolo al quale, con il trattato di Sèvres del 1920, era stato promesso uno Stato mai realizzato. Da allora, questa popolazione presente soprattutto in Turchia – oltre che in Siria, in Iraq e in Iran – ha vissuto cento anni di sofferenze, senza soluzione di continuità. Uno scenario confermato di recente: un conflitto di cui, al pari di quello palestinese, non si riesce a intravedere la fine.
L’8 marzo scorso, cioè un mese prima del voto amministrativo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha promesso di “eliminare in maniera definitiva la minaccia separatista” del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), il cui leader Abdullah Öcalan, quando era primo ministro il kemalista Bülent Ecevit, fu arrestato (siamo nel febbraio 1999), poi condannato all’ergastolo, dopo una breve permanenza in Italia dove le autorità dell’epoca lo avevano illuso circa un possibile asilo politico, finendo però con l’abbandonarlo nelle mani dei servizi segreti turchi che lo catturarono in Kenya. Oggi una sorta di “soluzione finale” è in corso, con la complicità fratricida dei curdi iracheni, guidati dalla famiglia Barzani, anche loro interessati a controllare l’area di confine tra la Turchia e l’Iraq.
Questo scenario drammatico ha accompagnato le elezioni amministrative del 31 marzo scorso. Alla vittoria del kemalista Partito popolare repubblicano (Chp) e alla sconfitta del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), si è affiancato, nel Sud-est del Paese – ovvero nel territorio a maggioranza curda, il cui capoluogo è Diyarbakir –, il successo del Partito della democrazia e dell’uguaglianza del popolo (Dem). Com’è prassi, negli appuntamenti elettorali nel Kurdistan, la polizia e l’esercito hanno messo in atto una vera e propria persecuzione nei confronti della popolazione e dei politici locali. Un dirigente del Dem è stato ucciso, e una candidata vicesindaca è stata gravemente ferita, perché si opponeva ai tentativi di disturbare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali.
Siamo di fronte a un déjà vu. Nelle elezioni del 2019, quarantotto dei sessantacinque sindaci del Partito democratico del popolo (Hdp), organizzazione di sinistra filocurda, furono sostituiti con esponenti di fiducia del presidente. L’anno scorso l’Hdp si era visto congelare i conti bancari dalla Corte costituzionale, con l’accusa di finanziare il terrorismo. Questo aveva significato il commissariamento di decine di comuni, l’arresto di settemila militanti, oltre che la cancellazione dell’immunità per decine di deputati. Sono attacchi che, nello scorrere dei decenni, a prescindere dal governo in carica, i vari partiti politici di sinistra e filocurdi hanno sempre dovuto subire. Basti ricordare la vicenda della deputata curda Leyla Zana, più volte condannata, e con lei il Partito del popolo (Hep), confluito in seguito nel Partito democratico del popolo (Dep), entrambi in tempi diversi sciolti dalla Corte costituzionale. Nel 1994 Zana fu insignita del Premio Bruno Kreisky, e nel 1995 del Premio Sacharov. Le venne anche conferita la cittadinanza onoraria dal Comune di Roma.
Com’è noto, tutto questo avviene sotto gli occhi indifferenti degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che anzi hanno inserito il Pkk nella lista delle formazioni terroristiche, malgrado abbia anch’esso contribuito alla lotta contro l’Isis. Troppo importante il ruolo che gioca la Turchia, Paese membro della Nato, nello scacchiere geopolitico internazionale, per poterla collocare nel mirino della comunità internazionale. Ma che cosa potrà significare per i curdi la sconfitta di Erdoğan e l’affermazione dei kemalisti? In un’intervista rilasciata al “manifesto”, Yuksel Genç, sondaggista e già esponente del “Gruppo per la pace” del 1999, ha affermato che “il partito Dem non deve essere abbandonato, ma ha bisogno del sostegno solidale del Chp. Solo questa nuova alleanza potrebbe aprire le porte a una Turchia più libera e democratica, in cui i curdi saranno riconosciuti”. Al riguardo, tuttavia, la tradizione kemalista non lascia ben sperare. La politica persecutoria nei confronti dei curdi è un tratto comune, che ha unito nel tempo i principali partiti turchi, laici o islamisti che siano. Speriamo ovviamente di essere smentiti.