(Questo articolo è stato pubblicato il 5 aprile 2024)
I Band Aid, i Live Aid, i We are the World, i nuovi Bod Gedolf e i nuovi Michael Jackson, con due guerre in corso sulle spalle dell’Europa, non avranno fiato per gridare alle abituali catastrofi e carestie africane. La musica cambierà o non ci sarà affatto? Comunque, quarant’anni dopo l’allarme della grande carestia in Etiopia (1983-85), che nel 1984, grazie ad alcune drammatiche immagini diffuse dalla Bbc, aveva attirato l’attenzione mondiale, la carestia si ripete in questi mesi nella generale indifferenza. La fame continua, nelle stesse regioni e per le stesse ragioni.
Oggi puntiamo il dito contro il cambiamento climatico; non è però una sventura venuta dal cielo, ma dalle scelte dei governi, africani e non. Due anni di conflitto col Tigrai (2020-22), durante il quale il governo di Addis Abeba – quello del premier Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019 – ha impedito l’arrivo dell’aiuto umanitario, lasciano dietro di sé morti per fame: 1390 negli ultimi sei mesi. Il governo, dopo la tregua che ha messo fine al conflitto, è accusato di proseguire la guerra con altri mezzi, nascondendo lo stato di sottoalimentazione cui è condannato il 90% della popolazione del Tigrai.
Prosegue invece a pieno titolo la guerra in Sudan, scoppiata a metà aprile di un anno fa, tra esercito e forze paramilitari (ne abbiamo parlato qui), provocando la fuga di otto milioni di persone, in un contesto in cui le principali infrastrutture sono state distrutte. Il Programma alimentare mondiale ha lanciato l’allarme, all’inizio di marzo, per quello che considera il rischio di scatenare la più grande crisi alimentare mondiale. Oggi solo il 5% della popolazione del Sudan può permettersi un pasto decente al giorno.
Intanto è l’Africa meridionale a destare più preoccupazione. Dopo lo Zambia e il Malawi, anche lo Zimbabwe ha decretato, il 3 aprile, lo stato di catastrofe nazionale, a seguito della siccità causata dal fenomeno del niño che ha drasticamente ridotto le precipitazioni. A soffrirne, è tutta l’Africa meridionale dove alcune regioni del Malawi, Mozambico, Zambia e Zimbabwe hanno ricevuto, secondo la Fao, solo l’80% delle piogge stagionali, con la compromissione della produzione agricola. A lanciare l’allarme è anche Oxfam, che stima in ventiquattro milioni il numero delle persone a rischio di fame in quattro Paesi dell’Africa australe. Secondo l’Ufficio dell’Onu che coordina gli affari umanitari (Ocha), questa regione ha ricevuto, nei mesi di gennaio-febbraio di quest’anno, la più scarsa quantità di piogge degli ultimi quarant’anni.
Il cambiamento climatico incide in molteplici direzioni e con modalità opposte. La siccità si combina così con altre situazioni estreme, come le inondazioni provocate da cicloni tropicali,di rara violenza in queste regioni. Il nord del Madagascar è stato letteralmente inondato alla fine di marzo, con la conseguenza di decine di morti e migliaia di sfollati. El niño, il fenomeno climatico che provoca il riscaldamento delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico, si ripercuote con sempre maggiore forza anche nell’Africa sud-orientale, con un’alternanza di siccità e precipitazioni irregolari e violente, che si ripercuote sulla produzione agricola e sulla diffusione delle epidemie. Sono colpite soprattutto le parti più fragili della popolazione: i contadini poveri, le popolazioni urbanizzate delle periferie, i bambini. Secondo l’Unicef, quarantacinque milioni di bambini dell’Africa meridionale e orientale sono a rischio per l’accumularsi di crisi multiple, come la malnutrizione e l’epidemia di colera. Anche la chiusura delle scuole, spesso i soli presidi sanitari presenti nelle regioni più remote, a causa dei fenomeni climatici estremi, provoca l’aumento dell’incidenza di malattie, della malnutrizione – e naturalmente, per le nuove generazioni, l’aumento dell’incertezza del futuro.