Sorprende che i giovani delle nostre università, che giustamente si mobilitano per l’orrore di Gaza, non si attivino anche sul fronte di una guerra che pare sempre più avvicinarsi ai confini dell’Europa. Non che siano mancate coraggiose manifestazioni pacifiste, peraltro isolate, da una costola delle quali è nata anche una formazione elettorale, ma un vero e proprio movimento di massa contro la guerra tra la Russia e l’Ucraina in Italia non lo si è visto, come del resto nemmeno negli altri Paesi dell’Unione.
Nel frattempo, è diventato evidente che Kiev, nonostante qualche residuo proclama in cui si continuano ad annunciare future controffensive, sta perdendo la guerra: mancano soldi, munizioni, uomini, ai vertici dell’esercito e dei servizi avvengono continui avvicendamenti – il che non è certo segno di salute –, e si susseguono le richieste di armamenti sempre più pesanti e a lunga gittata, dagli aerei fino ai micidiali missili Taurus. Per l’Europa diviene sempre più difficile mantenere la posizione di “coinvolgimento a distanza” finora assunta.
Ancora un anno fa Jürgen Habermas poteva scrivere che l’obiettivo delle forniture d’armi occidentali non era tanto “sconfiggere la Russia” quanto far sì che “l’Ucraina non perdesse la guerra”. Formulazione certo ambigua, dietro cui stava però ancora un’ipotesi di trattativa e di conclusione politica del conflitto. Non tutti certo condividevano questa posizione: nell’Unione, in Germania, all’interno della stessa coalizione “semaforo”, c’era chi si muoveva su una linea molto più aggressivamente atlantista, come mostrò chiaramente lo scontro tra verdi, liberali e socialdemocratici sulla fornitura dei carri armati Leopard a Kiev. Oggi, però, da quella discussione sembra che sia passato un secolo, non un anno; e la formula proposta da Habermas non sembra più avere ragion d’essere.
Dopo il fallimento delle trattative con la mediazione della Turchia, che pure parevano molto vicine a una conclusione positiva, il conflitto lo decide la forza. Ed è sempre più difficile per l’Europa rimanere fuori dallo scontro, nonostante il cancelliere Scholz abbia finora impedito che la Germania si trovi sempre più invischiata nel conflitto. L’Europa arriva indebolita e divisa al redde rationem lungamente esorcizzato e rinviato, sia per il trascinarsi di una serie di crisi, a partire da quella del 2007-2008 fino alla Brexit, sia per la difficoltà di ricollocarsi sul piano internazionale in un mondo post-pandemico sempre più policentrico, con l’emergere di nuove potenze economiche e militari. Ma sulla sua attuale fragilità pesano anche divergenze interne, l’affacciarsi dei populismi di destra, la cui ombra si proietta sulla prossima tornata elettorale di giugno, la mancanza di un progetto politico autonomo.
Così, se è poco probabile che le minacce che le sta rivolgendo Putin, pur condite e servite nella salsa piccante dello strapotere nucleare, siano qualcosa di più di manovre di deterrenza e di consolidamento del consenso interno, si affacciano però ineludibili la questione del riarmo e il problema di cosa fare del destino dell’Ucraina. Riarmo che pare nascere più dall’incertezza della congiuntura bellica che da minacce dirette, e che si annuncia per nulla facile e tutt’altro che rapido. Il martellante refrain delle ultime settimane sul prospettarsi di una guerra tra la Russia e l’Occidente ha forse più lo scopo, agendo sulle paure collettive, di creare un sostegno nell’opinione pubblica a una spesa massiccia in campo militare, di quanto non sia realmente fondato sul timore di attacchi da Oriente. In ogni caso, si direbbe remoto un ingresso in guerra dell’Unione europea in tempi brevi, anche per semplici motivi di impreparazione e di mancanza di coordinamento.
Nonostante la Zeitwende, la “svolta storica” che ha portato la Germania per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale a investire cento miliardi in armamenti, il piano tedesco di rafforzamento dell’esercito appare disperatamente insufficiente e in ritardo rispetto agli eventi. Qualche mese fa, in una intervista alla “Zeit”, il ministro della Difesa, Boris Pistorius, ha lamentato che la riorganizzazione delle forze militari tedesche è lenta e inadeguata, e che occorrerebbe un “cambio di mentalità” che non si intravede ancora all’orizzonte.
Siamo molto lontani dall’agguerrita Polonia, il cui primo ministro, Donald Tusk, ha addirittura dichiarato che il suo Paese è ormai entrato in una dimensione pre-bellica e già l’aviazione pattuglia attentamente i cieli. Certo, gli interessi della Polonia, che da tempo ha proceduto a un rafforzamento militare, e ora si gioca nel conflitto in Ucraina una scommessa storica sulla sua influenza a Est, sono ben diversi da quelli dell’Europa centrale e meridionale; ma la distanza tra le posizioni di Scholz da quelle di Tusk o di Macron, per non dire da quelle di Orbán, rende evidente il venir meno dell’asse franco-tedesco come struttura portante dell’Unione.
Nonostante il tentativo di mostrarsi unanimi e coesi, la debole leadership di von der Leyen ha fatto emergere un moltiplicarsi e un diversificarsi delle posizioni dei singoli Stati, di cui l’Ungheria rappresenta il caso estremo. E comunque, se il riarmo stenta, e manca una pianificazione militare europea, dove trovare altro denaro da gettare nella fornace ucraina che ha già divorato somme enormi? E come immaginare una fuoriuscita dalla trappola bellica che non sia un cedimento completo alle pretese russe?
La Germania, che non ha lesinato nel sostegno a Kiev, è ormai in recessione, stroncata dalla crisi energetica, dalla potenza tecnologica cinese e dai miliardi buttati nel conflitto. Perciò si è ventilato, come abbiamo recentemente raccontato (vedi qui), addirittura di ricorrere a breve agli interessi dei depositi russi congelati nelle banche occidentali per finanziare gli ucraini.
Per questo insieme di ragioni, forse ha senso gridare: “Al lupo! Al lupo!”, come stanno facendo i media europei, anche se la Russia non rappresenta una seria minaccia, né si intravedono ragioni di un attacco convenzionale all’Unione europea e alla Nato. Putin ha spesso affermato che la Russia non ha intenzione né interesse ad attaccare la Nato, a meno che la Nato non attacchi la Russia. E tuttavia, finché la guerra in Ucraina continuerà, la situazione rimane pericolosa, c’è il rischio concreto che la Nato e la Russia inciampino in una guerra, anche involontariamente, come risultato di uno scontro non intenzionale, come accennava su queste pagine Giorgio Graffi (vedi qui), magari a causa di un incidente, più o meno artatamente provocato.
Sullo sfondo della questione incalzante del destino dell’Ucraina, la corsa al riarmo, disordinata e all’insegna dell’ognuno per sé, rimane comunque inquietante. Forse un massiccio movimento pacifista europeo potrebbe spingere i governi e l’Unione a riprendere quella via delle trattative che oggi pare preclusa, invece di fare aleggiare sconsideratamente venti di guerra. Ma per ora non si vedono soggetti in grado di dare vita a un simile movimento, anche se forse non è troppo tardi per lanciare una proposta che faccia tacere i tamburi che, sia pure lontani, suonano sempre più cupi.