
La vittoria delle opposizioni democratiche ed europeiste nelle elezioni amministrative pone un serio problema a Erdogan. E anche all’Europa. I dati non ammettono dubbi: le grandi città hanno sonoramente bocciato il sultanato che Erdogan ha prefigurato con la sua svolta islamista, e soprattutto con il suo equilibrismo fra l’alleanza con l’Occidente (ricordiamo che Ankara è un perno della Nato e della strategia mediterranea americana) e il vicinato con la Russia di Putin e le potenze mediorientali. Proprio le ambiguità nelle relazioni con l’ala saudita, che lo ha portato a prendere la testa del movimento filopalestinese, insieme con i robusti affari che continua a tessere con Israele, hanno fatto perdere per strada al leader nazionalista parecchi consensi da parte delle componenti più oltranziste.
Il vero fronte aperto, su cui balla la Turchia – diventata politicamente contendibile, nonostante la coltre autoritaria con cui Erdogan ha provato ad avvolgerla – è proprio quella con le forze moderniste filoccidentali. La geografia del voto non potrebbe essere più esplicita: tutte le grandi città – cioè, oltre a Istanbul e ad Ankara, dove complessivamente vive poco meno della metà dei turchi, un’altra trentina dei circa ottanta centri urbani del Paese – hanno dato una chiara vittoria al Partito popolare repubblicano (Chp), guidato dal trionfante primo cittadino della megalopoli del Bosforo, l’istrionico Imamoglu, che ha respinto l’attacco in massa degli apparati governativi, mobilitati da Erdogan per conquistare Istanbul. Una vittoria con undici punti di distacco, che ha permesso agli oppositori del regime di festeggiare a circa metà dello scrutinio. Stessa scena, con un valore ancora maggiore, nella capitale politica Ankara, dove ha seccamente vinto Mansur Yavas. E ancora: vittoria nell’intera corona di grandi città, sia della costa sia dell’interno, con l’eccezione della piattaforma più profonda dell’Anatolia, scarsamente abitata nelle sue lande contadine, rimasta fedele al Sultano.
Più della quantità, però, quello che colpisce, in questa consultazione, è la qualità del voto che ha penalizzato Erdogan: non solo i centri delle città, com’era accaduto nelle elezioni precedenti, ma anche le popolatissime periferie, dove il partito del presidente riusciva a far valere il suo clientelismo e il richiamo delle moschee, hanno voltato le spalle al regime. Si intravede in formazione una nuova alleanza kemalista, potremmo dire, rovesciando l’uso propagandistico che Erdogan ha fatto di Atatürk, il padre della Turchia moderna. Un’alleanza, quella di oggi, che sembra ricalcare quella fra ceti medi professionali e periferie produttive e industriali, che, nel secolo scorso, aveva guidato il Paese fuori dallo sfacelo ottomano.
Vediamo in campo una generazione competitiva e tecnologica, che guarda all’Europa senza complessi di inferiorità, con un piglio fortemente libertario. Una generazione che riclassifica l’intera gamma delle forze socioculturali che scavano in Turchia. A cominciare dagli apparati statalisti di Erdogan che si troveranno di fronte un popolo che chiede strategie e libertà per giocarsi la partita del proprio successo, e non più per uscire dalla disperazione. Un popolo legato all’Europa, tramite le sue università e imprese molto aggressive, che da tempo rendono la Turchia un vero digital country. Perciò la relazione con Israele non potrà più passare dalle collaborazioni sulle tecnologie militari – Ankara al momento è uno dei fornitori di droni e sistemi di guida a distanza a Putin, inizialmente realizzati su licenzia di Tel Aviv –, ma dovrà entrare in forte concorrenza sui brevetti e sulle licenze di produzione.
Questo condurrà l’Europa a dover riesaminare la sua strategia, che finora era risolta dal filoislamismo di Erdogan, che toglieva a Bruxelles ogni imbarazzo nel confermare il veto all’adesione del Paese all’Unione. Una nuova leadership occidentalista ed europeista riaprirà la porta che i Paesi dell’Est europeo, insieme con quelli scandinavi, avevano chiuso all’inizio del millennio. Ma insieme all’Europa si metterà in moto anche il fondamentalismo islamico, che si vedrà minacciato nella sua lenta marcia di conquista dell’egemonia culturale e religiosa. Si annuncia una stagione in cui un regime declinante e un sistema di interessi e di fanatismi teologici cercheranno di alzare la posta, anche con una possibile ondata di violenze.
La Turchia ritorna però a essere la “Sublime Porta”, attraverso cui dovranno passare il nostro futuro e la nostra sicurezza.