In un convegno organizzato di recente presso la Scuola Sant’Anna di Pisa (a cura di Marco Solinas), è emersa con chiarezza la differenza che fa sì che l’antisionismo non sia di per sé una forma di antisemitismo, nonostante l’ossessiva propaganda di Israele tenda a confonderli. Tratto distintivo dell’antisemitismo (fin dai tempi dei famigerati Protocolli dei savi di Sion, un falso confezionato, o almeno diffuso, dalla polizia segreta zarista) è il momento complottista: gli ebrei sarebbero in procinto di impadronirsi del dominio mondiale, grazie alle loro attività finanziarie e di infiltrazione in ogni settore della vita sociale. Le cosiddette teorie complottiste (o cospirazioniste) hanno dalla loro il fatto di non essere confutabili: l’elemento loro proprio è il segreto, quell’aspetto oscuro del potere messo in luce – si può dire – già da Machiavelli. È in un certo senso l’ombra che accompagna qualsiasi autorità “legittima” basata sul consenso, il risvolto che non può essere svelato senza mettere a rischio quello stesso consenso. Quando questo segreto è proiettato su un elemento esterno, si ha la specifica paranoia complottista (le mene trotskiste secondo Stalin, per esempio, e a un certo punto, sul finire della sua vita, anche il “complotto dei medici ebrei”).
Tutt’altra cosa l’antisionismo – l’opposizione, cioè, alla prospettiva della costruzione di uno Stato ebraico che, nelle intenzioni, ponesse fine alla diaspora e alle persecuzioni antisemite in Europa. Questa prospettiva, com’è noto, si è realizzata nel 1948 in quei territori, all’epoca sotto mandato britannico, in cui da sempre c’erano anche i palestinesi. È un capitolo nella storia dei colonialismi. Il “ritorno” degli ebrei, e la costruzione di un loro Stato, possono essere visti come una colonizzazione fuori tempo massimo, per così dire, quando a poco a poco gli altri colonialismi cominciavano a ritirarsi. Ci fu una responsabilità britannica: anziché lasciare una colonia ad altri colonizzatori, la Gran Bretagna avrebbe dovuto, con lungimiranza politica, giungere preliminarmente alla costruzione di uno Stato in cui ebrei e palestinesi potessero convivere.
A distinguere, in maniera netta, l’antisionismo dall’antisemitismo è dunque la considerazione del sionismo come una conseguenza, e al tempo stesso una prosecuzione, del colonialismo europeo. L’antisemitismo è tutt’altro, e si differenzia anche dai razzismi derivanti dalla dominazione coloniale, quella ai danni dei neri o dei gialli, proprio per la presenza del complotto attribuito agli ebrei.
È vero, tuttavia, che nel corso di una tormentata controversia, fatta di guerre e violenze reciproche tra popolazioni diverse intorno a una stessa terra (“promessa” per gli uni, “rubata” per gli altri), si sia arrivati a una qualche saldatura tra le due cose. Per molti arabi, e probabilmente per la maggioranza dei palestinesi, gli ebrei sarebbero da cacciare in quanto ebrei; com’è stato ricordato nel corso del convegno di cui sopra, oggi sulle bancarelle del Cairo si trovano non poche copie del Mein Kampf di Hitler. Con il diffondersi dell’islamismo radicale, nelle sue varie declinazioni, di sicuro si è aggravata la tendenza a una sovrapposizione. Ma questo pasticcio – l’antisionismo che sconfina nell’antisemitismo – andrebbe lasciato semmai all’estremismo arabo e palestinese.
Sarebbe invece nell’interesse di Israele, se volesse allentare la tensione, ricordare che le due cose vanno distinte. Certo, Israele potrebbe ricavare un vantaggio dalla distinzione solo se intendesse assumere i propri nemici come potenziali interlocutori, ammesso cioè che volesse trattare con loro secondo lo slogan “due popoli due Stati”, qualcosa comunque di diverso dallo Stato ebraico immaginato dal sionismo. Essere, da parte di Israele, se non antisionista almeno post-sionista, sarebbe insomma una condizione preliminare per cercare una via per la pace. Sulla base della semplice considerazione che essere in uno stato di guerra incessante non è un bel vivere.