Suona quasi come una beffa che, mentre il regime di Putin inseriva il movimento Lgbtq+ nella lista delle organizzazioni “estremiste terroriste”, si preparava invece in Russia, senza che nessuno potesse prevedere dove avrebbe colpito, il più grande attentato dai tempi del conflitto ceceno, quello che diede poi al leader del Cremlino l’occasione per mostrare il suo volto di spietatissimo repressore. Se si pensa che solo pochi mesi fa il gruppo jihadista internazionale denominato Stato islamico (Isis) – o la sua sezione “afghana”, nata in parte da talebani dissidenti –, aveva rivendicato una strage analoga sul suolo iraniano, si possono mettere insieme i pezzi del puzzle – al netto delle dietrologie possibili, come quella che supporrebbe una “manina” dei servizi, non si sa se ucraini, occidentali o degli stessi russi, in quest’ultimo caso, evidentemente, per preparare un’ulteriore escalation bellica.
La cosa ha una sua propria logica. Sullo sfondo non c’è soltanto il Caucaso che, con la diaspora cecena, ha infoltito le file dell’Isis; c’è la terribile guerra civile di non molti anni fa in Siria, innescata da una tra le più generose “primavere arabe”, che puntava a rovesciare il regime di Assad. Costui, sciita alauita, è uno stretto alleato sia dell’Iran sia della Russia: si può dire, anzi, che abbia potuto rimanere al suo posto proprio grazie al loro aiuto. E in quella zona del mondo siamo ancora lontani da una pacificazione. Nella galassia dei nemici di Assad, vi è appunto l’Isis – rigidamente sunnita, come si sa, venuto fuori dal vicino Iraq e dal disastro prodotto occupando e devastando quel Paese all’epoca della pretestuosa guerra, voluta da Bush e da Blair, contro Saddam – che ha subito una dura sconfitta sul campo (anche in virtù dell’intervento occidentale in favore delle forze curde). È dunque nella sua logica che l’Isis faccia ricorso alle stragi per cercare di rifarsi.
Analizzando fenomeni del genere, si deve cominciare col mettere da parte una maniera troppo occidentale di leggere gli accadimenti. Per gli islamisti radicali, pur nelle loro diverse declinazioni spesso in conflitto tra loro, seminare la morte, magari al tempo stesso dandola a se stessi, è moneta corrente. Quando Hamas – per stabilire un parallelo solo fino a un certo punto forzato – fa quello che ha fatto il 7 ottobre, con il suo attacco spettacolare quanto feroce, non può non mettere in conto che sta esponendo la popolazione di Gaza alla brutale reazione israeliana; però valuta le distruzioni e le morti che ne seguiranno secondo un’ottica sacrificale. Mentre gli attentati dei movimenti palestinesi del passato miravano a colpire Israele secondo una logica del “non ci sarà pace fino a quando resterà aperta la questione palestinese”, nella strategia islamista rientra il martirio collettivo, in parte dettato dalla disperazione, in parte interno a una fede religiosa.
Tutto ciò deve indurci a guardare con una lente non esclusivamente “nostra” gli accadimenti contemporanei. Non c’è spazio unicamente per l’illuminismo, sia pure reimpostato in modo autocritico e incentrato sulla denuncia dei misfatti occidentali. Assistiamo al ritorno di uno spirito politico-religioso, e quindi anche delle guerre di religione: certo una conseguenza di lunga durata del vecchio colonialismo, ma anche una novità nell’odierno disordine globale. Non tutto, nel bene e nel male – se pensiamo, in particolare, alla pur decisiva importanza del sistema economico-sociale chiamato capitalismo –, proviene da noi; c’è una dimensione autoctona delle culture tradizionali, che hanno trovato in una ricerca identitaria guidata dalle religioni l’humus di una rinascita.
Nulla del genere era atteso. Quella secolarizzazione – che avrebbe dovuto esplicarsi in un’uscita della fede religiosa dalla scena pubblica, nel suo passaggio alla sfera individuale privata e in una crescente laicizzazione delle forme di vita – non si è mai realizzata a livello globale. È almeno dal 1979, anno della rivoluzione iraniana, che ciò è sotto i nostri occhi. Siamo qui, come nel caso delle controversie tra Stati risultanti dalla dissoluzione del sistema sovietico, in un lungo Novecento che non finisce di proiettare la sua ombra. Sarebbe quindi sbagliato – mentre ci misuriamo con le questioni poste dall’avanzamento tecnologico, dall’intelligenza artificiale e quant’altro – non mettere a fuoco, d’altro canto, quei fenomeni che palesano un mondo che, nel suo disordine, non è affatto interamente occidentalizzato.