Nel mese di febbraio, l’Argentina ha conquistato il poco invidiabile primato di Paese con l’inflazione più alta al mondo: ha superato il Libano e il Venezuela, e le prospettive per l’anno in corso non sembrano destinate a cambiare. I dati sono stati resi noti dal Fondo monetario internazionale, secondo il quale, fatta eccezione appunto per il caso argentino, l’80% dei Paesi, nell’anno in corso, registrerà un calo dell’inflazione rispetto al 2023. Mentre nel resto del pianeta l’aumento medio dovrebbe essere attorno al 5,8%, all’Argentina governata dall’ultraliberista Javier Milei, nel 2024, andrà ancora una volta la maglia nera, con un tasso d’inflazione superiore al 200%. Secondo l’Istituto nazionale di statistica e censimento (Indec), il mese scorso l’Argentina ha registrato un aumento dei prezzi al consumo del 13,2%, cioè del 276,2% in un anno; mentre il Libano si ferma al 177%, e il Venezuela ha registrato una deflazione dello 0,5%, in un mese, e un aumento dell’85% su base annua.
Il Fondo monetario internazionale ha riconosciuto che sono stati fatti “buoni progressi” sulla strada di un abbassamento dell’inflazione; ma ha chiesto che il peso dell’aggiustamento che il governo argentino sta portando avanti “non ricada in modo sproporzionato sulle famiglie povere e lavoratrici”, che “il valore reale delle pensioni” sia preservato, e che ulteriori aiuti siano destinati ai settori più vulnerabili. Attualmente, la pensione minima è di 134.000 pesos (circa 120 euro), al di sotto della soglia di povertà, che è di 193.000 pesos per un adulto (pari a circa 175 euro). E il salario minimo equivale a 180 euro.
Dal canto suo, papa Francesco si è arrabbiato quando ha letto nei media argentini che stava appoggiando l’aggiustamento di Milei e ha ordinato di smentire. Dopo la visita del presidente in Vaticano, il giornale argentino online “Infobae” aveva scritto che il sommo pontefice era “soddisfatto del programma economico”, facendo seguito a un dialogo di Milei con il giornalista Román Lejtman, che lo aveva accompagnato durante il tour in Israele e a Roma. Della smentita si è incaricato un sacerdote amico di Bergoglio, Juan Carlos Molina, che, rispetto alla presunta soddisfazione del papa nei confronti della politica economica di Milei, ha detto: “Questo non è vero, ve lo assicuro”.
Intanto, vista la prospettiva che sembrerebbe aprirsi con il governo ultraliberista, gli ambienti economici internazionali attendono speranzosi di sapere se e a quale prezzo potranno accaparrarsi le imprese statali di cui Milei intende disfarsi; e se il nuovo presidente sarà in grado di dare seguito all’affermazione del primo marzo, nel suo discorso al parlamento, quando ha dichiarato che “lo Stato è una organizzazione criminale” al cui posto far nascere un sistema economico con poche normative e molta più libertà di mercato. In un Paese come l’Argentina, dove lo Stato è uno dei grandi datori di lavoro, non è impresa da poco. Per non essere smentito, Milei ha intanto fatto chiudere Télam, la più grande agenzia di stampa dell’America latina e la seconda più importante in lingua spagnola, e ha bloccato il finanziamento statale all’Istituto nazionale del cinema e delle arti audiovisive argentino, a cui si deve la produzione cinematografica del Paese.
Milei ha vinto le elezioni con un discorso violento contro la classe politica tradizionale, la casta, colpevole di avere regalato al Paese anni di stagnazione economica e perdita del potere di acquisto, che, tra il dicembre 2017 e il novembre 2023, si è ridotto del 25%. La svalutazione del peso del 54%, voluta dal nuovo governo, è stata una scelta gradita ai mercati e ai settori economici legati all’esportazione, ma ha fatto schizzare l’inflazione, provocando una perdita del potere di acquisto dei salari di un ulteriore 23%. Mentre il Pil è sceso dell’1,6%, nel 2023, per il 2024 viene dato in calo del 2,8%. Secondo i dati della Camera di commercio, a febbraio le vendite al dettaglio sono diminuite del 25%, e le immatricolazioni di nuovi veicoli si sono contratte del 20%. Il che significa che gli effetti dell’impoverimento hanno colpito anche la classe media, costretta sempre più a vendere i dollari che teneva in casa come forma di risparmio al riparo dall’inflazione.
L’anarco-liberista aveva iniziato la sua gestione con il 58% di approvazione e il 42% di rifiuto, dopo essere stato votato al ballottaggio dal 56% degli argentini. Ora, a poco più di tre mesi dall’assunzione della carica di presidente, trascorsi ormai i fatidici cento giorni della luna di miele, l’appoggio, da parte dei concittadini, è sceso di sei punti, e il Paese torna a essere spaccato in due. A sostenerlo, sono in prevalenza gli uomini, i giovani e la classe media; le donne esprimono un minore sostegno (il 49%) al leader di La Libertad avanza (questo il nome del partito di Milei), mentre gli uomini il 65%. Dal sondaggio condotto da Opina Argentina, tra il 2 e il 4 marzo, emerge, tuttavia, che i ministri in carica godono di un’immagine migliore dei dirigenti peronisti. I risultati mostrano, infatti, che Milei (52%), la vicepresidente Victoria Villarruel (50%) e il ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich (50%), sono ben al di sopra di Axel Kicillof (38%), Cristina Kirchner (36%), Sergio Massa (35%) e Juan Grabois (35%). Lo studio di Opina dice anche qualcosa circa il sostegno alla dollarizzazione, uno dei cavalli di battaglia di Milei durante la campagna: il 51% la rifiuta e il 36% la approva.
Nonostante le sue scelte economiche abbiano peggiorato le condizioni in cui la popolazione argentina si trova e la povertà si avvicini al 60%, con una disoccupazione in aumento, la narrazione di Milei incolpa di tutti i mali chi lo ha preceduto alla Casa Rosada. Ma la strada che il neopresidente ha scelto per deregolamentare lo Stato, dando tutto il potere al mercato, con l’eccezione della sicurezza e della giustizia, ha trovato ostacoli, in primo luogo, da parte dei tribunali, che hanno bloccato la riforma del diritto del lavoro che Milei voleva far passare col suo Decreto di necessità e urgenza (Dnu). Una riforma che avrebbe cancellato buona parte delle tutele di cui il lavoro dipendente gode nel Paese, e reso ininfluente il ruolo della contrattazione sindacale.
Milei si scaglia quindi contro tutti coloro che, in qualche misura, ne ostacolano la corsa, accusandoli di essere parte della casta per distruggere la quale è stato votato dalla maggioranza degli argentini. Sorvolando sul fatto che la sua Libertad avanza ha solo 38 dei 257 deputati e 7 dei 72 senatori; e anche sul fatto che gli stessi deputati dell’opposizione, di cui i peronisti rappresentano la formazione parlamentare più consistente, sono stati eletti da una parte del popolo con il mandato di rappresentarlo. Se questa è una realtà che dovrebbe spingerlo a cercare una strada differente, a privilegiare un approccio più pragmatico, anche per assicurarsi l’appoggio delle formazioni politiche a lui più vicine – come Juntos por el cambio e come i radicali –, Milei, prigioniero del mito che lui stesso ha creato intorno al suo personaggio, insiste a volere interpretare l’uomo della motosega, come fosse ancora l’ospite delle trasmissioni televisive che hanno fatto la sua fortuna, o ancora in campagna elettorale. E anziché mediare, anziché cercare il compromesso, vuole che siano gli altri a farsi da parte e a sgombrargli la strada.
È stato così che il suo Decreto di necessità e urgenza, contenente più di trecento misure, entrato in vigore lo scorso 29 dicembre, è stato bocciato dal Senato con quarantadue voti contrari, venticinque a favore e quattro astenuti, giovedì 14 marzo, segnando una batosta non indifferente per il governo. Anche perché ha messo in luce una spaccatura tra Milei e la sua vice, Victoria Villarruel, accusata di avere ceduto alle richieste peroniste di mettere il decreto in discussione, invece di tenerlo a bagnomaria in attesa di tempi più favorevoli all’esecutivo. Nonostante la bocciatura, il decreto rimane comunque in vigore, fino all’esame da parte della Camera dei deputati, e continua a produrre i suoi effetti. Se anche questa lo bocciasse, decadrebbe; nel caso opposto, rimarrebbe in vigore.
Già a febbraio, la Camera si era opposta alla cosiddetta “legge omnibus”, dopo che il dialogo con i parlamentari si era interrotto, quando avevano chiesto più risorse per le province, ricevendo un rifiuto da parte di Milei. Allora il governo era stato costretto a ritirare la legge, che aveva già subito un taglio di quasi la metà dei suoi 664 articoli. Una legge che prevedeva molti dei provvedimenti pensati da Milei per sbaraccare lo Stato, ma soprattutto la delega al presidente dei poteri legislativi per due anni prorogabili. A tutti gli effetti, un suicidio per il parlamento e una pericolosa spirale verso l’autoritarismo. La foga violenta di Milei, attraverso i social media, aveva allora avuto come obiettivo i parlamentari traditori. Così è stato anche dopo la bocciatura del Dnu, quando il presidente ha sparato a zero contro coloro a cui dovrà chiedere il voto alla Camera, quando il decreto – il più tardi possibile, secondo gli auspici dell’esecutivo – andrà in discussione. Perché il governo spera di avere migliore fortuna e più consenso in futuro, dato che, a differenza di quanto accade al Senato, il kirchnerismo alla Camera non è così forte e, allo stesso tempo, il partito di governo e i suoi alleati – principalmente del Pro e di un settore dei radicali – raggiungono un numero che permetterebbe loro di approvare sia la legge sia il Dnu. È probabile che il nuovo pacchetto di riforme possa essere discusso solo dopo Pasqua, permettendo alla parte colloquiante dell’esecutivo di avere abbastanza tempo per raggiungere un accordo.
Intanto, il malcontento si fa sentire nelle piazze. E se Milei invoca ancora la pazienza della gente, con la promessa che verrà il momento che gli effetti benefici della sua politica si faranno sentire, c’è anche chi questa pazienza l’ha già esaurita, dal momento che, dopo lo sciopero generale della Confederación general del trabajo (Cgt), lo scorso 24 gennaio, nelle ultime settimane hanno scioperato gli insegnanti, i medici e i ferrovieri. In questa situazione, la scorsa settimana, una deputata dell’opposizione ha rivelato che Milei aveva firmato un decreto con cui aumentava del 48% lo stipendio a tutti i membri dell’esecutivo. Emerso il fatto, il presidente si è anzitutto giustificato, dicendo che l’aumento era l’effetto di un vecchio decreto dell’ex presidente Cristina Kirchner; in seguito, però, col montare della polemica, ha pensato di dare la colpa al ministro del Lavoro, che è stato licenziato in tronco. Da qualsiasi angolazione si guardi all’accaduto, non certo una bella prova.