Dalla politica vengono spesso sorprese che contraddicono le migliori previsioni (o speranze). Questa volta negli Stati Uniti non è stato così. Le primarie del cosiddetto Super Tuesday, in cui hanno votato gli elettori democratici e repubblicani in sedici Stati e un territorio (Samoa americane), sono andate esattamente come era previsto. Trump ha vinto dappertutto con percentuali tra il 55% e l’80%, mentre Nikky Haley, la sua unica avversaria dopo il ritiro dell’altro contendente, Ron DeSantis, ha perso dappertutto, con l’unica eccezione del Vermont (e prima di Washington D.C.). Biden ha vinto in tutti gli Stati con percentuali ancora superiori, dal momento che praticamente non aveva contendenti degni di nota. L’unica eccezione sono state le Samoa, dove invece ha vinto (con 51 voti!) un certo Jason Palmer. Le Samoa comunque sono un territorio, non uno Stato, e i suoi abitanti non potranno votare nelle elezioni generali.
A questo punto, Trump ha totalizzato 995 delegati che voteranno per lui nella convention repubblicana; gliene servono ancora 220 per avere la maggioranza, e si prevede che li otterrà già la prossima settimana, con il voto in Georgia e in altri tre Stati. Haley, nonostante il suo 30%, ha ottenuto soltanto 92 delegati, a causa del fatto che le primarie repubblicane si svolgono in base alla regola “il primo prende tutto”. I democratici invece assegnano i delegati su base proporzionale, ma nessuno degli avversari di Biden ha superato la soglia minima per averne.
In questa quasi unanimità per Biden c’è stata un’unica “increspatura” degna di nota: i voti uncommitted. In alcuni Stati, dove è forte la presenza di elettori arabo-americani o mussulmani, gli elettori democratici, scontenti della sua politica nei confronti della guerra di Gaza, invece di barrare la casella con il suo nome sulla scheda, hanno scelto di barrare la casella “non impegnato” (uncommitted), e questo ha fruttato loro una diecina di delegati in Michigan e in Minnesota. Per chi voteranno questi delegati nella convention democratica non è dato sapere, dal momento che non sono collegati ad alcun candidato; e comunque la questione è abbastanza irrilevante.
Il giorno dopo le primarie, Nikki Haley ha preso atto della sconfitta e ha annunciato di ritirarsi; è difficile, però, dopo la dura polemica con Trump, fino all’insulto, che decida di “passargli” i suoi delegati, al contrario di quanto fece Ron DeSantis a fine gennaio. Si presenterà ugualmente come candidato terzo? Neanche questo sembra probabile, dal momento che dovrebbe ottenere l’appoggio dei grandi finanziatori – banche, lobby, imprese – già impegnati con i due partiti maggiori; e senza soldi, tanti soldi, candidarsi sarebbe un’impresa disperata, tanto più che nei giorni scorsi ha già perso il sostegno della potente Organizzazione Koch.
Quindi, che lo vogliano o no, gli americani si troveranno il 5 novembre a votare per uno di questi due candidati, Biden o Trump, nonostante in base ai sondaggi nazionali il 70% di loro preferirebbe (o avrebbe preferito) votare per qualcun altro. Del resto è il sistema che non offre altra scelta. Il presidente in carica è il candidato naturale del suo partito, e raramente viene contestato a meno che non sia lui stesso a farsi da parte. Trump, per parte sua, è riuscito a presentarsi come un incumbent, un presidente in carica, sostenendo addirittura che nel suo caso non avrebbero dovuto tenersi le primarie, ma solo una scelta per acclamazione. Pretesa senza precedenti, ma supportata dal fatto che, nel corso degli ultimi due anni, è riuscito a conquistare, con le promesse e le minacce, il controllo di tutto il Partito repubblicano, governatori, parlamentari nazionali e locali. Chi lo contraddice, o soltanto non lo sostiene, diventa oggetto dei suoi insulti e delle sue vendette, e presto si piega a “baciare l’anello” di colui che in tanti ormai prevedono sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti.
Perché è questo il punto. I sondaggi parlano al momento di un vantaggio di Trump su Biden di almeno cinque punti a livello nazionale, dato particolarmente preoccupante, in quanto riguarda anche gli swing States, gli Stati in bilico, che sono spesso determinanti nell’assegnare la presidenza. I sondaggi rifletterebbero uno spostamento dell’opinione pubblica americana sui principali temi di politica interna. Sull’economia, per esempio, la generalità degli elettori iscritti nelle liste (quindi non solo i repubblicani) ritiene che la situazione sia peggiore oggi di quanto non lo fosse quattro anni fa. I dati macroeconomici dicono esattamente l’opposto, ma il 65% degli elettori ritiene che l’economia andasse bene sotto Trump contro il 38% che ritiene che vada bene oggi sotto Biden. Sull’immigrazione – problema effettivamente grave, con quasi tre milioni di immigrati “clandestini” nel 2023 – una larga maggioranza di elettori ritiene che Trump sarebbe più efficace di Biden, nonostante quest’ultimo abbia adottato di recente misure draconiane per arginare il flusso di migranti.
Insomma, anche a prescindere dalla questione dell’età (che pure pesa), Trump viene visto come un candidato forte e deciso, in grado di risolvere i problemi del Paese (reali o percepiti), mentre Biden viene visto come un uomo debole e vacillante. Neanche il fatto che Trump sia sotto processo per reati gravi (insurrezione armata, frode elettorale, corruzione di testimone) sembra impensierire gli elettori repubblicani: solo il 25% di loro pensa che nel caso venisse condannato non dovrebbe fare il presidente; allo stesso tempo il 65% continua a pensare che Biden non abbia legittimamente vinto le elezioni di quattro anni fa.
Quindi, per un verso, si assiste al solidificarsi dell’approvazione repubblicana, a livello di vertice e a livello popolare, nei confronti di un personaggio così palesemente impresentabile come Donald Trump, sostenuto con percentuali massicce (e crescenti) dalla sua “coalizione” formata da conservatori di destra, evangelici, bianchi, abitanti delle campagne e adulti sopra i 48 anni. Per un altro, si assiste al progressivo indebolimento della coalizione democratica, che i politologi prevedevano sarebbe stata la carta vincente dei democratici per i prossimi decenni: neri, ispanici, donne, giovani, popolazione urbana.
In quasi tutti questi segmenti dell’elettorato democratico, tra il 2020 e il 2024, c’è stata una significativa perdita di consensi: tra i neri dall’87 al 76%, tra gli ispanici dal 65 al 53%, tra le donne dal 57 al 52%; solo tra i giovani tra 18 e 29 anni ci sarebbe un modesto incremento: dal 60 al 63%. Ancora più preoccupante è che questa perdita va a beneficio dei repubblicani, che aumentano i loro consensi in tutti i segmenti citati (donne, neri, ispanici, giovani soprattutto non istruiti).
Le primarie non sono finite, ma i giochi sono fatti ed è difficile che cambino. Il circo mediatico naturalmente continuerà a parlare della marcia trionfale dei due candidati verso le elezioni generali dimenticando che l’affluenza al voto è stata bassissima, sotto il 15%, e che entrambi hanno un indice di gradimento molto basso (43% Trump, 38% Biden). Ma se i giochi sono fatti per le primarie, quelli per le elezioni generali sono ancora aperti. Qui la politica potrebbe portare qualche sorpresa, oppure Biden potrebbe riuscire a convincere i suoi concittadini che è giusto che gli lascino “finire il lavoro”, ed è pericoloso che si affidino nuovamente a un avventuriero che costituisce una “minaccia per la democrazia”. Comunque vada, il 5 novembre – salvo imprevisti, sempre possibili – gli americani decideranno quale di questi due candidati, entrambi non graditi, sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti.