(Questo articolo è stato pubblicato il 7 marzo 2024)
Gli Huthi (che molti scrivono Houthi, non si sa bene perché) sono detti ufficialmente i Partigiani di Dio (Ansar Allah), mentre il nome con cui sono più noti è quello del fondatore del loro movimento, ucciso dalle forze armate yemenite nel 2004. Dura da una ventina d’anni la guerra civile in quella regione, con il coinvolgimento, come si sa, dell’Arabia saudita e dell’Iran, di cui il gruppo armato sciita è uno stretto alleato. Gli Huthi sono una delle molte facce dell’islamismo radicale che – almeno dal 1979, anno della rivoluzione iraniana – abbiamo imparato a conoscere. Ma non sono solo questo. La guerra civile di cui sono espressione, e che hanno contribuito ad alimentare, è una perfetta rappresentazione delle divisioni interne all’islam, per il quale le guerre di religione non sono un ricordo del passato ma una realtà viva e presente.
Ora, questo variegato mondo, tutto però antioccidentale, può trovare l’unità in un solo modo: nel sostegno alla causa palestinese contro Israele. Quando la tensione aumenta in Medio Oriente, passano in secondo piano le divergenze non solo dottrinali, anche geopolitiche, tra gli sciiti, i sunniti e i loro differenti gruppi armati. Ne consegue che c’è un’unica strategia politicamente seria – sebbene difficile da perseguire – per far sì che gli Huthi (o gli Hezbollah libanesi, più o meno simili) se ne stiano tranquilli: impedire anzitutto la prosecuzione della guerra a Gaza, e poi mettere in campo un progetto di pace con la fine dell’occupazione, da parte di Israele, dei territori in Cisgiordania. Il resto è acqua fresca.
Potete abbattere i droni in mare, o rispondere agli attacchi bombardando le postazioni degli Huthi nello Yemen, ma non verrete a capo del problema. Per la semplice ragione che questi combattenti in sandali di plastica hanno fatto da tempo della guerra il loro habitat naturale. La distruzione del loro Paese, e della meravigliosa capitale Sana’a, non è si è realizzata – come temeva Pasolini, che là girò Il fiore delle Mille e una notte e il documentario intitolato Le mura di Sana’a – a causa del turismo e della “omologazione culturale”, ma in un certo senso per la ragione opposta: perché le ancestrali motivazioni alla guerra, le distinzioni tribali e così via, hanno avuto ragione di ogni modernizzazione.
Non va dimenticato che per un periodo non breve (dal 1967, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, a coronamento di una lunga lotta armata) lo Yemen del Sud fu una Repubblica popolare in stile marxista-leninista. La sua dissoluzione, e la riunificazione con il Nord nel 1990, sono un antefatto di quanto accaduto con la guerra civile successiva. Per quanto strano possa sembrare, dunque, il destino dello Yemen può essere osservato con la stessa lente applicabile a Paesi come l’Azerbaigian, l’Armenia, la Georgia e perfino l’Ucraina. Le guerre che ne sono venute fuori sono la conseguenza della fine del mondo diviso in blocchi e del nuovo disordine globale che ne è seguito.
Ciò significa che si deve guardare con nostalgia alla guerra fredda, che ebbe comunque anche un periodo di cosiddetta coesistenza pacifica? No. Vuol dire piuttosto che si deve prendere coscienza del fatto che un passato arcaico-tradizionale, fatto di nazionalismi, tribalismi, rancori reciproci tra etnie e correnti religiose, è rimasto a lungo ibernato sotto la scorza puramente superficiale di un sistema – quello sovietico in senso lato – che non aveva saputo risolvere le proprie contraddizioni interne, ma solo reprimerle o sedarle.
Nei confronti dell’attuale caos mondiale, si dovrebbe evitare il più possibile un aumento delle tensioni. Non sappiamo nemmeno se sia veramente possibile difendere la libera navigazione nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden colpendo di tanto in tanto qualche drone manovrato dagli Huthi, o scoraggiando le loro incursioni marittime (e sottomarine, a quanto pare, se si pensa al danneggiamento dei cavi di Internet). Sarebbe meglio, come del resto in molti casi sta già avvenendo, fare il giro largo con le navi che trasportano merci e materie prime, doppiando il Capo di Buona Speranza (dal bel nome utopico), lasciando così cuocere gli Huthi nel loro brodo, mentre nel frattempo si dovrebbe mettere mano in Medio Oriente al progetto di pace di cui sopra.
Ma – si dice – in questo modo verremo a spendere di più! Ci sarà un aumento dei prezzi, una ripresa dell’inflazione, tutto a causa della forte interdipendenza del commercio mondiale. Non sarebbe però più saggio, una buona volta, cogliere l’occasione per diminuire il fabbisogno di materie prime e di pezzi essenziali a una quantità di prodotti, come i famosi microprocessori, in una certa misura riconvertendo le produzioni, e in un’altra, anche maggiore, fabbricando in Occidente quanto è necessario? E se l’inflazione ormai domata dovesse rialzare la testa, non sarebbe preferibile questo rischio, anziché quello di aprire un altro fronte di guerra?