“Dio ama Israele e noi onoriamo tutto ciò che Dio ama, siamo invitati a pregare per loro”, spiega il pastore Emanuele Frediani della Chiesa apostolica in Italia, attiva dal 1958, con sede a Grosseto. “Abramo ha ricevuto la promessa dal Signore. Chi studia le Scritture sa che Israele è l’orologio di Dio. Le cose che succedono lì, in Palestina, sono dei rintocchi del nostro tempo”. Alcuni cristiani evangelici ritengono inevitabile, e anzi auspicabile, il dominio del moderno Stato israeliano sul territorio palestinese, considerandolo un passaggio necessario al compimento delle profezie bibliche che portano al Regno di Dio.
Stimati in 660 milioni nel mondo all’inizio del 2020, in crescita nel cristianesimo mondiale, gli evangelici abbracciano diverse interpretazioni delle Scritture, per quanto riguarda il Paese mediorientale. C’è chi crede nella “teologia della benevolenza”, ossia considera il popolo ebraico come eletto da Dio, e perciò meritevole di sostegno, e c’è chi adotta una prospettiva messianica, pensando quindi che il trionfo dello Stato d’Israele permetterà il ritorno di Dio sulla terra. Secondo questa lettura, il ritorno del popolo ebraico nella “terra promessa” è visto come il compiersi della volontà di Dio, che, dopo l’Apocalisse, instaurerà il suo dominio. La teoria “dispensazionalista”, infatti, prevede sette fasi temporali e vuole che in questo momento si stia attraversando la sesta, l’ultima, cioè il millennio finale prima del giorno del Giudizio.
“L’invocata preghiera per la pace di Gerusalemme non prescinde dalla profezia biblica che non depone per una pace universale senza prima attraversare drammaticamente gli eventi escatologici”, si legge sul sito della Chiesa apostolica in Italia. Prima la fine del mondo, quindi, poi la pace. La guerra e la distruzione del popolo palestinese sono momenti terribili, ma inesorabili, e le morti non sono altro che danni collaterali, lasciando adito a teorie controverse e a revisionismo storico. “Non ne facciamo un discorso di carattere politico”, dice il pastore Frediani: “Non credo che in questa guerra c’entri molto quella striscia di terra, abbastanza insignificante. Ora è su Gaza, prima era in Europa, prima c’era Hitler ora l’Iran, il problema è di carattere spirituale, riguarda l’antisemitismo. Cambiano i protagonisti, la storia rimane la stessa”.
L’appoggio evangelico al sionismo non è una novità. Alla fine dell’Ottocento, le nascenti comunità cristiane protestanti aiutarono a presentare le prime idee di Stato d’Israele. Un esempio è la famosa frase: “un popolo senza un Paese, per un Paese senza un popolo”, riferita alla Palestina, in realtà tutt’altro che disabitata, che fu pronunciata dall’aristocratico inglese Lord Shaftesbury, appunto un evangelico. Dopo la caduta dell’Unione sovietica, poi, quasi un milione di ebrei si è trasferito in Israele, grazie alle donazioni evangeliche.
Tuttora molte organizzazioni finanziano l’Aliah, il “ritorno” degli ebrei in terra promessa. “Noi sosteniamo l’Aliah, letteralmente la salita. A Gerusalemme non si va, si sale, perché è a 750 metri di altitudine”, spiega Andie Hortai Basana, presidente di Evangelici d’Italia per Israele. “Dio ha previsto che Israele dovrà ritornare nella terra che gli ha assegnato. Nella Genesi, capitoli 12 e 15, promette ad Abramo una terra e dice: ‘benedirò quelli che ti benediranno, maledirò chi ti maledirà’, perciò noi li sosteniamo con beni materiali”.
Edipi, o Evangelici d’Italia per Israele, nasce nel 2002, quando, racconta Basana, a giorni alterni a Tel Aviv saltavano in aria gli autobus e in seno alla Chiesa evangelica italiana è sorto il desiderio di costituire un’organizzazione per aiutare concretamente gli israeliani. Le donazioni che ricevono, di cui non divulgano l’entità, provengono da tutta Italia, e sono inviate soprattutto alle congregazioni di ebrei messianici presenti sul territorio, come la comunità agricola Yad Hashmona alla periferia di Gerusalemme. “Sono ebrei, ma sono come noi perché hanno riconosciuto in Gesù il messia”,dice Basana. L’Edipi mantiene rapporti anche con le istituzioni laiche, organizzando eventi con l’ambasciata israeliana o partecipando a conferenze con esponenti politici di Fratelli d’Italia, come Tommaso Foti. Sostiene inoltre campagne dal respiro internazionale, attive nel nostro Paese, come quelle dell’associazione sionista Keren Hayesod, che nel 2022 ha aiutato 74.915 olim, ebrei che decidono di “tornare”, e ha fornito un’abitazione a 4.586 nuovi cittadini israeliani. “Inizialmente gli ebrei erano 650.000, ora sono sette milioni e mezzo”, commenta Andie Basana: “Dal 1948 il piano di Dio si sta compiendo”.
Sono varie le associazioni e le Chiese che si sono apertamente riconosciute in questa lettura e nell’appoggio allo Stato d’Israele. Tra le più attive, c’è Cristiani per Israele (C4I), fondata nel 1979 in Olanda e con la sede italiana a Padova, che vanta di avere aiutato oltre 130.000 persone a raggiungere la “terra promessa”. Il loro sito sostiene: “Gli ebrei torneranno dai quattro angoli della terra in preparazione della venuta del Messia. Possiamo vedere queste profezie che si stanno adempiendo davanti ai nostri occhi”.
Fortunatamente, non tutti i cristiani evangelici condividono queste posizioni. L’Assemblea della federazione delle Chiese evangeliche in Italia, insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese, a fine ottobre 2023, ha approvato un documento su Israele e Palestina che invita a pregare per una giusta pace in Medio Oriente “costruita sui pilastri della giustizia, della sicurezza e dei diritti umani per tutti i popoli della regione”, chiedendo il cessate il fuoco e l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. L’Unione battista voleva inoltre la partecipazione dei cristiani nei processi di pace, costruendo “ponti sospesi sul baratro della storia”. Negli anni, l’impegno della Federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) è andato nella promozione di progetti come “Fiori di pace” e “Semi di pace”, che, come spiega il pastore Luca Baratto, segretario esecutivo della Fcei, “sono impegnati nel supporto alla convivenza pacifica, per il dialogo tra israeliani e palestinesi”. E, commentando le interpretazioni delle associazioni sioniste, sostiene: “Non credo che ci sia un legame diretto tra lo Stato di Israele e le profezie bibliche. I profeti portavano promesse di pace e il miglior modo di promuovere la pace è il dialogo, non certo la violenza del terrorismo o degli eserciti”.
Purtroppo altrove, soprattutto negli Stati Uniti, la situazione è ben diversa. A poche ore dall’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre, Christians United for Israel (Cufi), un’associazione evangelica statunitense che vanta più di dieci milioni di membri, ha espresso una posizione tutt’altro che neutrale: “Dio si sta preparando a difendere Israele in un modo soprannaturale. Bisogna colpirli così duramente che i nostri nemici torneranno a temerci”. Per John Hagee, il pastore leader dell’associazione, famoso per le teorie controverse in cui interpreta la pandemia o il gay pride come avvisaglie dell’Apocalisse, aiutare Israele nelle sue mire espansionistiche è un modo per accelerare il processo verso il Regno di Dio.
Una dichiarazione evangelica, a sostegno della campagna militare di Netanyahu, è stata rilasciata anche dalla Commissione per l’etica e la libertà religiosa, un braccio della Southern Baptist Convention, una denominazione che conta 45.000 chiese negli Stati Uniti. “In linea con la tradizione cristiana della guerra giusta, affermiamo anche la legittimità del diritto di Israele di rispondere contro coloro che hanno iniziato questi attacchi, poiché in ‘Romani 13’ si concede ai governi il potere di portare la spada contro coloro che commettono atti malvagi contro la vita innocente”, si legge nel testo, con oltre novanta firmatari, tra cui solo quattro donne. Non a caso Netanyahu, durante un incontro a Washington nel 2017, si è rivolto a loro come i “migliori amici” di Israele. Le associazioni statunitensi non solo spediscono ingenti donazioni – l’International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) ha raccolto 233.663 mila dollari solo nel 2022 – ma entrano attivamente nella politica estera del Paese per favorire le correnti sioniste più intransigenti.
All’alba delle elezioni politiche statunitensi, il voto evangelico potrebbe essere di nuovo l’ago della bilancia. Come riportato dalla Cnn, nel 2020 i cristiani evangelici, per lo più bianchi, costituivano il 28% dell’elettorato, e di questi tre quarti hanno votato per Trump. L’ex presidente repubblicano non dà l’impressione di essere un fedele, e le sue dichiarazioni, come la famosa grab ’em by the pussy, non restituiscono il ritratto di un devoto. Eppure, secondo una ricerca pubblicata su “Deseret news”, tra i repubblicani oltre la metà (53%) ha riconosciuto in Trump un uomo di fede. A marzo 2023, lo psicologo Joshua Grubbs ha interpellato gli elettori bianchi evangelici che si sono identificati come repubblicani: il 53% ha detto che avrebbe votato per Trump, meno dell’1% ha dichiarato che avrebbe votato per Joe Biden.
Nell’arco di soli quattro anni di amministrazione Trump, su iniziativa del vicepresidente Mike Pence, evangelico sionista, gli Stati Uniti hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, di fatto riconoscendola come capitale dello Stato di Israele, e hanno definanziato drasticamente l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Non solo: hanno legittimato l’occupazione delle alture del Golan, tanto che all’esterno di una colonia israeliana c’è un cartello che le nomina Trump Heights, “alture di Trump”.
Cosa potrebbe succedere ora, nel bel mezzo della guerra e del genocidio contro il popolo palestinese, se l’ex presidente venisse rieletto? Difficile da prevedere. Trump si è spesso legato alla corrente repubblicana del non intervento negli interessi dei Paesi alleati, e non si è mai espresso in modo chiaro sulla questione mediorientale. Ha espresso solidarietà a Israele, ma allo stesso tempo ha criticato le scelte di Netanyahu e dell’intelligence israeliana. Si è limitato ad accusare Biden, sostenendo che l’attacco del 7 ottobre non si sarebbe verificato se lui fosse stato in carica. Comunque, qualsiasi cosa accada, la politica internazionale non può essere soggetta all’influenza delle credenze religiose. Una concezione dogmatica della fede rende acritica la risposta verso le politiche criminali, come quella condotta da Israele. Gli eventi vengono concepiti alla stregua di mutamenti necessari verso un futuro mistico, e se la vita ultraterrena e la volontà divina sono più importanti, si perde la già precaria concezione degli equilibri globali, si perde una lettura lucida dei fatti.