Ci avviciniamo all’8 marzo e stiamo per essere inondati di dati e retorica sulle discriminazioni nei confronti delle donne e sulla violenza nei loro confronti, violenza che si traduce sempre più spesso in omicidi. Stiamo per ascoltare i discorsi e le dichiarazioni via social di politici, intellettuali e sociologi (molto spesso maschi) che ci spiegano quanto siamo indietro nel percorso di emancipazione e nella lotta per l’uguaglianza. È stato lanciato di recente anche uno spot pubblicitario, firmato da una nota azienda leader della telefonia sui ritardi nel percorso accidentato dei diritti. Nel grande calderone ci sarà perfino chi rimetterà in discussione la data simbolo. Perché festeggiare ancora l’8 marzo in un periodo storico che vede una donna sulla poltrona di Palazzo Chigi?
Dietro il fumo mediatico si nasconde una realtà fatta di difficoltà quotidiane di milioni di donne, che devono combattere per il rispetto di diritti che dovrebbero essere uguali per tutte e tutti per definizione, visto che se un diritto non è applicato universalmente diventa facilmente un privilegio. Da questo punto di vista, gli osservatori statistici sono inesorabili. La differenza salariale tra uomini e donne, nel settore privato, ha raggiunto, nel 2022, quasi ottomila euro l’anno. Ce lo dice l’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps che registra appunto un gender pay gap di 7.922 euro. La retribuzione media annua complessiva è di 22.839 euro; per il genere maschile è di 26.227 euro contro i 18.305 euro del genere femminile. Le differenze sono marcate anche tra i territori, con le retribuzioni medie nel 2022 più elevate nell’Italia settentrionale, pari a 26.933 euro, mentre per Sud e Isole le medie sono di 16.959 e 16.641 euro. Tra le Isole e il Nord-est la differenza è di 7.333 euro.
I dati statistici dicono il vero, ma non dicono tutta la verità. Non si tiene conto, per esempio, della variabile delle “ore lavorate”, una questione che ha due facce: da una parte, sappiamo che quasi metà delle donne ha a che fare con il part-time. Per gli uomini si parla solo di uno su cinque. E già questo dato spiega una parte della differenza in busta paga. Si tratta poi (e questa è l’altra faccia della questione) di un fattore strutturale, perché la scelta del part-time di una donna, spesso (anzi quasi sempre), è “involontaria”: dettata dalla necessità di sopportare il grosso del lavoro domestico, non retribuito. E non si tratta solo di lavoro domestico o di cura dei figli, ma anche di sostegno e cura degli anziani e dei disabili. Il lavoro gratuito di molte donne è la vera sostituzione di un welfare pubblico che si continua a ritirare progressivamente.
Molti studi dimostrano anche i ritardi nell’organizzazione del lavoro e nella divisione delle mansioni. Tra i problemi strutturali, che impediscono alle buste paga delle donne di crescere al livello dei loro colleghi uomini, c’è il fatto che molto spesso le lavoratrici restano “appiccicate” ai gradini più bassi della piramide lavorativa, anche se ci sono aree dove la proporzione si è cominciata a invertire: auditing, risk management, legale, risorse umane, marketing e comunicazione, e via dicendo. Ma quello che conta è ancora il quadro d’insieme: nel settore privato, le donne si fermano al 17% dei dirigenti e al 31% dei quadri. Diverso, ma ancora denso di contraddizioni, il quadro del lavoro femminile nei settori pubblici, dove il soffitto di cristallo si manifesta in forme diverse e si colloca in spazi diversi rispetto al privato, ma non per questo senza discriminazioni, pensando soprattutto alla scuola, alla ricerca e all’università, dove comunque sono stati fatti grandi passi in avanti.
In generale, il fenomeno della discriminazione è ancora, purtroppo, fortemente radicato e rischia di essere alimentato dall’uso di nuovi strumenti di intelligenza artificiale, i quali molto spesso danno luogo a risultati discriminatori nei confronti delle categorie sotto-rappresentate. C’è chi comincia a rimettere in discussione il sistema consolidato della produzione degli algoritmi su cui si basa l’intelligenza artificiale, che assorbirebbe i pregiudizi maschili, poiché gli stessi sono addestrati sulla base di informazioni che di per sé contengono dei pregiudizi. Di recente, due avvocate (o avvocatesse?), Anna Cataleta e Sabire Sanem Yilmaz, hanno intrapreso una storica iniziativa inviando una lettera aperta sottoscritta da numerose loro colleghe indirizzata alle più importanti istituzioni europee.
La lettera ripercorre i rischi derivanti dalla diffusione di bias (“pregiudizi”) di genere da parte dei nuovi strumenti tecnologici, e auspica lo sviluppo di standard internazionali etici, nonché di linee guida in grado di tutelare adeguatamente i diritti e le libertà dei soggetti vulnerabili. L’obiettivo di tutte le firmatarie è quello di smuovere le coscienze dei legislatori, dei regolatori e dell’industria sui pericoli della discriminazione perpetrata dagli algoritmi dei sistemi di intelligenza artificiale nei confronti dei soggetti più vulnerabili: primi tra tutti le donne.
E se questo succede nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico, ai livelli più arretrati dello sviluppo mondiale, il quadro è veramente fosco per le donne. Le organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu, sostengono che in media le donne hanno il 75% dei diritti in meno rispetto a quelli di cui godono gli uomini. Dei circa quaranta milioni di persone vittime di forme di schiavitù moderna, quali lavoro e matrimonio forzato, traffico di esseri umani, più di sette su dieci sono donne. Le lavoratrici sono più produttive e meno pagate, a partire da Paesi che si dichiarano ancora comunisti come la Cina. Le donne lavorano per i due terzi del totale delle ore lavorative mondiali, ma a loro spetta solo il 10% del reddito mondiale.
Non parliamo qui della violenza che subiscono le donne, di cui la cronaca nostrana degli ultimi due anni è colma. Alzando lo sguardo dai femminicidi di casa nostra, scopriamo stime secondo le quali circa il 35% delle donne a livello globale ha subito violenza almeno una volta nella vita, mentre il 60% di tutti gli analfabeti del mondo è costituito da donne, ragazze e bambine.
Non abbiamo quindi bisogno di un ennesimo 8 marzo della retorica. Non abbiamo bisogno di mimose rassicuranti. Si tratta, per la politica, di cominciare a produrre atti concreti, a partire dal ripristino dei fondi che sono stati tagliati per i centri antiviolenza, per gli asili nido e perfino per gli assorbenti. Si tratta di intervenire praticamente e nella sostanza delle discriminazioni salariali. Si tratta di prendere atto che c’è molta strada da fare e che ancora la politica e il mondo del lavoro non riescono a dare una risposta alle migliaia di donne che sono state costrette alle dimissioni perché, come ci racconta la sociologa Francesca Coin, non avrebbero voluto rifiutare il lavoro, ma più semplicemente non ce la facevano più. Ci sarà domani?