Give peace a chance e power to the people – cantava John Lennon. E a valori simili si erano richiamati, trent’anni prima, i padri fondatori dell’Europa per scongiurare, con strategie energetiche ed economiche non di antagonismo ma di collaborazione, quelle guerre che, nella prima metà del secolo, erano costate decine di milioni di morti. Il sogno di un’Europa pacifica e prospera si coniugava con la prospettiva di dare agli europei energia ed ecosostenibilità: in altre parole, power to the people, laddove power può significare energia e, al tempo stesso, potere politico.
Il principale settore preso inizialmente in considerazione dall’Europa fu quello dell’agricoltura. Nacque così la Pac (Politica agricola comune) che assorbì inizialmente oltre il 75% del budget comunitario (e ancora oggi ne rappresenta una voce importante, con contributi per la verità molto sbilanciati verso l’agroindustria a discapito delle piccole imprese agricole). Come si spiega, allora, che cinquant’anni dopo, gli agricoltori di tutta Europa invadano le principali capitali con i loro trattori per protestare proprio contro quella Europa che li ha sempre aiutati?
È necessario qui fare un passo indietro e ripercorrere le tappe del processo di integrazione europea. L’idea di un’Europa unita da politiche energetiche e economiche comuni nasce, come si sa, con il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Mentre gli europei si uccidevano a migliaia in una guerra legata al possesso di fonti energetiche, quei tre visionari arrivavano a immaginare un’Europa di pace, libertà e “potere alla gente”, ben sapendo che le fonti energetiche erano state alla base della Prima guerra mondiale, nata dalla contesa sui bacini carboniferi della Ruhr fra Francia e Germania, nonché della Seconda, nata per l’accesso ai pozzi petroliferi del mar Caspio e del Nord Africa.
Ispirati in parte da quel Manifesto, statisti coraggiosi stabilirono forme di cooperazione energetica quali la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), costituita a Parigi nel 1951, e l’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica), costituita a Roma nel 1957, per mettere in comune le attività relative all’atomo, riorientandole sul piano civile anziché su quello militare. Il trattato mirava a “coordinare i programmi di ricerca degli Stati membri relativi all’energia nucleare e ad assicurare un uso pacifico della stessa”. Questa strategia energetica era destinata a evolversi verso fonti energetiche più sostenibili, dapprima con un pacchetto di misure per promuovere energie sostenibili secondo i nuovi obiettivi proposti dal Protocollo di Kyoto, e successivamente dal Protocollo di Parigi del 2015.
Lo strumento principale per raggiungere questi obiettivi è oggi il Green Deal europeo, che si articola in otto linee d’azione ispirate ai diciassette Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 dell’Onu: prevede l’ambizioso obiettivo di una carbon neutrality (Europa a zero emissioni) nel 2050. È previsto anche l’obiettivo intermedio di ridurre le emissioni del 55% nel 2030, grazie al pacchetto “Fit for 55” annunciato a fine 2019 dalla presidente von der Leyen, d’intesa con la sua ispiratrice politica, Angela Merkel, attenta seguace della visione di Jeremy Rifkin. Si tratta di un’accelerazione verso un nuovo scenario di sovranità energetica, in cui sarà il sole a darci, oltre ai prodotti della fotosintesi, tutta l’energia di cui abbiamo bisogno per coltivarli. E il sole, a differenza del gas o dell’uranio, è di tutti, nessuno può possederlo e venderlo al metro cubo. Un’incredibile rivoluzione che potrebbe metterci al riparo dai venti (e gas) di guerra.
Il Green Deal europeo prevede anche strategie per la promozione della filiera corta in agricoltura (from farm to fork), per l’economia circolare, per la sostenibilità nei trasporti e nell’edilizia, per la tutela della biodiversità, per le bonifiche dei siti inquinati, per il ripristino degli ecosistemi, per la crescita dell’agricoltura biologica, e per la proibizione di pesticidi, delle emissioni zootecniche, dei nuovi Ogm. La riforma della Pac 2023-2027 condiziona al rispetto di queste norme l’ottenimento dei sussidi. Da qui una parte delle proteste dei trattori, indirizzate contro questi aspetti del Green Deal. Va però detto che il fronte della protesta è spaccato, perché esistono anche associazioni di agricoltori che individuano le vere cause della crisi dell’agricoltura europea proprio nella dipendenza dai fossili, dai fitofarmaci, e dalla grande distribuzione organizzata, che intercetta la maggior parte dei profitti lasciando ai piccoli agricoltori le briciole.
“L’aumento dei costi di produzione, determinato soprattutto dall’aumento dei costi energetici e quindi del gasolio, dei fertilizzanti e dei pesticidi chimici di sintesi, ha penalizzato essenzialmente gli agricoltori, mentre l’agroindustria e la grande distribuzione sono riusciti a tutelare meglio i loro interessi economici, confermando per gli agricoltori il ruolo di anello debole della filiera agroalimentare”, ci ricorda lo Slow Food di Carlo Petrini.
La soluzione, dunque, non può essere la cancellazione delle norme e degli impegni per la tutela dell’ambiente, o il rinvio dell’indispensabile transizione ecologica dell’agricoltura, ma, al contrario, l’accelerazione delle strategie europee, con la previsione però di aiuti alle piccole e medie imprese agricole europee per far fronte alla concorrenza dei grandi gruppi multinazionali, liberi di portare sul mercato europeo prodotti coltivati con tutti i fitofarmaci vietati in Europa, in Paesi in cui la manodopera è pagata con salari da fame. In questo senso, la marcia indietro dell’Europa proprio sui limiti ai pesticidi, è un pessimo segnale a vantaggio dell’agroindustria e a discapito dell’agricoltura biologica europea. Molto meglio sarebbe stato prevedere sostanziosi dazi alle frontiere per i prodotti delle multinazionali di incerta provenienza. Ma la partita non è ancora chiusa. Speriamo di vedere presto un cambio di rotta verso l’agricoltura biologica, le fonti rinnovabili, la sovranità energetica ed economica delle aziende europee, come prevede lo stesso Green Deal, peraltro in linea con le proposte di Slow Food, per una rapida transizione dall’agroindustria a un’agricoltura di prossimità.