In uno scenario che si sta facendo via via più complesso, il nuovo governo di Javier Milei si trova ad affrontare il braccio di ferro ingaggiato con i governatori delle province, con gli scioperi promossi da diversi sindacati per aumenti salariali, e con le migliaia di persone che hanno marciato nelle principali città dell’Argentina per chiedere assistenza alimentare per le mense comunitarie. Dal 10 dicembre scorso, quando è entrato in carica, Milei ha messo in atto un forte taglio delle spese, che in gennaio ha prodotto il primo surplus fiscale dopo dodici anni. Un’operazione che non è stata indolore, avvenuta a costo del diffondersi di una crescente tensione sociale determinata dai licenziamenti, dal taglio delle pensioni, e dall’aumento dei prezzi del cibo, dei medicinali e delle tariffe dei servizi pubblici, a causa dell’eliminazione dei sussidi finora erogati. È stato così, solo per fare un esempio, che il costo del biglietto dell’autobus è aumentato del 250% a Buenos Aires.
La tensione tra la Casa Rosada e i diversi governatori delle province covava da quando, alcune settimane fa, il governo ha smesso di liquidare il fondo di compensazione dei trasporti e il fondo nazionale di incentivi per gli insegnanti, che rappresenta circa il 10% dello stipendio di un docente. Ciò ha comportato che – solo nella provincia di Buenos Aires, la più grande e popolosa, con diciassette milioni di abitanti – la riduzione sia stata di circa 15.000 milioni di pesos al mese (circa 17,5 milioni di dollari alla quotazione ufficiale). I tagli del governo sono all’origine della forte reazione dei ventitré governatori delle province – di cui nessuno appartiene a La Libertad avanza, la formazione capeggiata da Milei –, da essi visti come una punizione dopo il fallimento della “legge omnibus” alla Camera dei deputati (vedi qui). Lo scontro, nei giorni scorsi, è stato tale che Milei ha definito “degenerati” i leader provinciali che si sono mossi contro il governo.
La provincia della Rioja ha chiesto alla Corte suprema di giustizia la sospensione dell’applicazione del decreto di Milei, e ha iniziato a emettere una cuasi moneda, una moneta sostitutiva del peso argentino, per poter far fronte alle spese. Quella della Pampa ha chiesto alla Corte il ripristino dei sussidi ai trasporti, mentre Rio Negro e Misiones hanno fatto causa allo Stato nazionale per non avere inviato alle province i fondi di incentivazione per l’insegnamento. Quanto alla provincia patagonica di Chubut, che ha già ottenuto una sentenza favorevole in un tribunale minore per il ripristino dei fondi al trasporto pubblico, la polemica con Milei è nata perché l’esecutivo ha trattenuto a febbraio 13.500 milioni di pesos (15,7 milioni di dollari), che dovevano essere girati alla provincia per la partecipazione fiscale federale.
La giustificazione data dal governo nazionale è che Chubut ha acceso un debito mettendo a garanzia i fondi che gli spettano per la co-partecipazione federale. Una giustificazione che il governo di Chubut ha considerato “arbitraria”, avendo cercato di gestire una ristrutturazione del debito, e poi una sua cancellazione, davanti al nuovo governo argentino, non avendo però da esso ricevuto una risposta. Il suo governatore, Ignacio Torres di Juntos por el cambio – una formazione di destra che appoggia a livello governativo Milei – ha avvertito che, se l’esecutivo non avesse inviato i fondi, avrebbe sospeso l’invio di idrocarburi. Nacho Torres, martedì 27 febbraio, ha fatto ricorso alla giustizia federale della provincia, per chiedere che il governo nazionale restituisca i fondi trattenuti dalla co-partecipazione, che allo Stato nazionale sia ordinato di “rinegoziare il debito a condizioni ragionevoli”, e che comunque i fondi nei prossimi mesi non siano più trattenuti. Così ieri il magistrato, Hugo Ricardo Sastre de Rawson, ha ordinato la cessazione del blocco della co-partecipazione voluta dalla Casa Rosada. Inoltre, ha esortato le parti a negoziare il rifinanziamento del debito che la provincia mantiene con lo Stato. Dopo la sentenza del tribunale, favorevole a Chubut, i governatori hanno tenuto una conferenza stampa al Senato, a Buenos Aires, durante la quale hanno detto di considerare risolto il conflitto per i fondi di quella provincia, chiedendo al presidente l’apertura di un dialogo. Lo hanno invitato a partecipare al parlamento della Patagonia, il 7 marzo. Inoltre, Torres ha chiarito che non fermerà la produzione di petrolio, come aveva minacciato che avrebbe fatto se non ci fosse stata una soluzione del conflitto per i 13.500 milioni di pesos trattenuti. “Se non ci fossimo resi visibili, ci avrebbero calpestato”, ha detto.
Tuttavia, il tentativo conciliante dei governatori non sembra essere stato accolto: il governo non ritiene la questione risolta, tanto più che sostiene che la sentenza non lo obbliga a inviare il denaro a Chubut. E il presidente ha già ordinato di portare il caso direttamente davanti alla Corte suprema di giustizia. Con quasi il 21% della produzione del Paese, Chubut è il secondo più grande produttore di petrolio in Argentina e il terzo per il gas naturale (6%). Lo scontro aveva visto Milei dichiarare, davanti alle telecamere del canale di notizie “La Nación+”, che Torres è “un povero ragazzo che non può leggere nemmeno un contratto” e ha “una precarietà intellettuale molto grande”. Giungendo a dire che una sospensione nella spedizione di petrolio o gas avrebbe significato “violare un diritto di proprietà”, ovvero commettere “un crimine”.
La posizione di Torres era stata sostenuta dalla maggior parte delle province, e i dieci governatori appartenenti a Juntos por el cambio avevano firmato una lettera di sostegno al collega patagonico. L’ultima contesa ha avuto un effetto sulla lotta interna in Propuesta republicana (Pro), il partito fondato dall’ex presidente Mauricio Macri, che è stato il principale alleato di Milei, di cui fa parte anche la formazione di Juntos por el cambio. A tal punto, che la prospettata fusione tra Pro e La Libertad avanza, fattasi strada durante il dibattito sulla fallita “legge omnibus”, sembra oggi tramontata.
Un recente sondaggio commissionato da “Página/12”, giornale di ispirazione kirchnerista, condotto dal Centro studi di opinione pubblica (Ceop), diretto da Roberto Bacman, registra che il governo ha perso quindici punti di popolarità, e il 75,9% degli intervistati si dice del parere che l’aggiustamento sia pagato dalla gente e non dalla casta. Se Milei ha già perso smalto in soli due mesi di governo, sono anche di più quelli che pensano male del presidente (54%) rispetto a coloro che ne pensano bene (46%), mentre un mese fa succedeva il contrario. Secondo il sondaggio, la gente non crederebbe che le cose miglioreranno in aprile, come sostiene Milei; mentre c’è una maggioranza contro la maggior parte delle misure perseguite dal governo: dalla dollarizzazione alla rimozione dei sussidi, ai trasporti, all’elettricità e al gas, fino alle privatizzazioni e all’abrogazione delle leggi sugli affitti e sulla terra. Dal momento in cui è entrato in carica, l’immagine di Milei è caduta incessantemente: il che è un dato inedito, esistendo per lo più una “luna di miele” iniziale tra un neopresidente e l’opinione pubblica. Pur non essendosi verificato, dal 1983 in avanti, che un presidente abbia perso quindici punti di popolarità prima dei fatidici cento giorni, Milei dà a vedere che poco gli importa il deterioramento della propria immagine; si affida al mondo virtuale delle reti, dove gode dell’appoggio dei giovani, soprattutto di quelli compresi nella fascia di età che va dai 16 ai 25 anni, una parte di elettorato, spesso di provenienza peronista, che continua a vedere in lui una speranza. Sono elettori che risentono del fascino di un presidente che non cerca accordi, ostinandosi a imporre le sue idee, senza preoccuparsi di accendere conflitti che crescono in quantità e complessità. Sono disposti a credere alla narrazione dell’anarco-capitalista, che fa intravedere un’uscita dal tunnel della disperazione economica in cui versa il Paese. Così è arrivato a twittare che “siamo di fronte a uno dei momenti più meravigliosi della nostra storia, dove è possibile vedere la casta politica sguazzare nella miseria e fare appello a tutti i tipi di bugie per difendere i suoi privilegi e quindi caricare i costi dei suoi deliri sui buoni argentini”. Quando invece è certo che le misure economiche poste in essere dal governo colpiscono il cittadino comune, attraverso gli aumenti dei prezzi del cibo e dei trasporti. Con gli stipendi e le pensioni che rimangono al palo, mentre in marzo sono attesi ulteriori consistenti aumenti del gas, dell’acqua e della corrente elettrica.
Le manifestazioni sindacali e le proteste sociali di questi ultimi giorni sono riuscite a rendere più visibile la situazione dei non protetti, dei pensionati, dei disoccupati, di coloro che mangiano nelle mense. Ma visto che la risposta del governo si traduce in un “no”, il clima sociale tenderà a peggiorare. Recentemente, sono state rese note le proiezioni contenute nel rapporto “Stima degli effetti dell’impatto inflazionistico post-svalutazione: scenario a dicembre 2023 e gennaio 2024”, dell’Osservatorio sociale dell’Università cattolica. Stando ad esse, la popolazione in condizioni di indigenza è passata dal 9,6%, nel terzo trimestre del 2023, al 14,2% nel dicembre 2023, e al 15% nel gennaio 2024. E il livello di povertà è salito dal 44,7%, osservato nel terzo trimestre del 2023, al 49,5% a dicembre e al 57,4% a gennaio. Sarebbero quindi quasi ventisette milioni le persone povere, di cui sette milioni indigenti.
Venerdì primo marzo, Milei terrà il suo primo discorso davanti all’Assemblea legislativa, nel quadro dell’apertura di sessioni ordinarie al Congresso, dopo quello pronunciato al momento dell’investitura. Un discorso carico di aspettative, visto lo scontro in atto nel Paese. Si tratta del suo primo intervento dopo il fallimento della “legge omnibus”. Nella commissione bicamerale, composta da otto deputati e otto senatori, che a breve sarà chiamata a stabilire la liceità del suo “Decreto di necessità e urgenza” (Dnu) – il provvedimento mediante cui, con la scusa dell’emergenza, cerca di liquidare lo Stato argentino, assumendo poteri legislativi che vorrebbe sottrarre ai due rami del parlamento –, i voti di cui dispone l’attuale maggioranza non bastano, e saranno determinanti il Pro, i radicali e le formazioni provinciali. Cosicché, in una situazione in evoluzione, che ogni giorno non risparmia qualche sorpresa, sembrerebbe crescere la possibilità che alla fine il decreto sia respinto.
Nella foto: la Casa Rosada a Buenos Aires