La riforma del lavoro di Matteo Renzi continua a perdere pezzi. Verso il suo decimo compleanno (2015-2025) quelle norme – che avrebbero dovuto rendere più fluido il mercato del lavoro, ovvero il rapporto tra la domanda e l’offerta, e che avrebbero dovuto aprire la strada dell’aumento felice dell’occupazione (si parlava, all’epoca, di un milione di posti di lavoro) – sono ancora oggetto di cause e interventi ai massimi livelli degli organi legislativi, e non hanno prodotto gli effetti sperati neppure dal punto di vista economico, visto l’aumento delle svariate forme precarie di occupazione. Protagonista dell’ultimo atto di una lunga sequela di sentenze e pronunciamenti, è la Corte costituzionale, intervenuta su sollecitazione della Cassazione. La Consulta ha esteso l’istituto del reintegro del lavoratore a tutti i casi di “nullità del licenziamento”. Una notizia sicuramente positiva, ma che ripropone la questione della garanzia universale dei diritti. Vediamo perché.
Tutto era partito dalla Toscana e dal licenziamento, per motivi disciplinari, di un autista del trasporto pubblico urbano, impugnato davanti alla magistratura perché l’azienda non aveva rispettato le procedure previste per consentire al lavoratore di difendersi. La Corte di appello di Firenze aveva dato ragione al lavoratore, riconoscendo la nullità del licenziamento, ma aveva anche concluso di non poter disporre il reintegro perché, in questo caso, il motivo di nullità non era tra quelli “espressamente previsti” dalla legge: un cavillo introdotto proprio dalla legge delega di Renzi, che era stato contestato da subito dal sindacato (in particolare dalla Cgil), ma anche da vari costituzionalisti e giuslavoristi. Per reintegrare un lavoratore ingiustamente licenziato le norme Renzi imponevano infatti il riferimento alla legge. Senza un’indicazione precisa della norma, i lavoratori licenziati ingiustamente, da quel momento in poi (2015), avrebbero potuto avere diritto solo a un indennizzo monetario pari a sei mesi di stipendio.
Oggi la Consulta dà ragione alla Cassazione, ristabilendo un principio molto semplice. Il regime di licenziamento nullo “è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata”. Insomma, se è nullo è nullo, non ci sono cavilli legislativi che tengano, e se è nullo il suo licenziamento il lavoratore, vittima della ingiustizia, deve essere reintegrato in azienda e non basta dargli qualche soldo come premio di consolazione.
Sia per la Cassazione sia per la Consulta, la riforma Renzi aveva nei fatti violato la Costituzione – e in particolare l’articolo 76 che regola l’attuazione delle leggi delega (l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo). In particolare – per i giudici – il salto incostituzionale era nascosto nel meccanismo perverso dei decreti legislativi in applicazione delle riforme. Da una parte, infatti, nei “principi” della riforma Renzi si prevedeva il reintegro nel posto di lavoro in tutti i casi di “licenziamenti nulli”, senza distinzioni, mentre con il decreto legislativo 23 (applicativo) si era nei fatti limitata questa tutela ai soli licenziamenti nulli “espressamente” previsti dalla legge. Un abuso, quindi, dello strumento della legge delega da parte di un governo che mostrava (allora come oggi) di non riconoscere il parlamento e l’universalità dei diritti di una classe lavoratrice sempre più frantumata. Con l’ultima sentenza della Corte costituzionale, si tornano così ad allargare le tutele previste dal mitico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Quale la morale della favola? La prima considerazione, come anticipavamo, riguarda la debolezza dell’intero impianto della riforma Renzi. Il Jobs Act era stato infatti già “corretto” nel 2018, quando la Corte aveva smontato “le tutele crescenti”, e poi nel 2020, quando era stato censurato il meccanismo di indennizzo in caso di vizi formali e procedurali, mentre nel 2022 era stato rivolto un monito al legislatore a predisporre tutele adeguate. Oggi l’allargamento della tutela per i lavoratori licenziati – ma anche la legittimazione dei licenziamenti collettivi, su cui è intervenuta di recente ancora la Consulta. È chiaro, dunque, che non si tratta più di mettere qualche pezza qua o là. Si tratta di rimettere in discussione tutto l’impianto del diritto del lavoro italiano, che è stato frammentato e smontato pezzo a pezzo sia dai governi berlusconiani ultraliberisti, sia dai governi di centrosinistra che hanno puntato al superamento della “rigidità” del diritto, una scelta che avrebbe portato blairianamente al bengodi dell’occupazione.
La seconda considerazione riguarda più in generale il sistema istituzionale. Si tratta di ripensare alla radice i rapporti tra i diversi organi costituzionali e i loro reciproci bilanciamenti. Siamo infatti stati abituati al potere assoluto dei governi che scavalcano il parlamento anche sul piano legislativo, con l’uso sempre più abnorme delle leggi delega. Oggi, con la possibilità concreta che si apra la stagione del premierato, le cose potrebbero addirittura precipitare attribuendo al governo il potere di fare e disfare in tutti i campi.
E il futuro del diritto del lavoro? La Cgil sta per prendere una decisione difficile. Dopo avere lanciato, ai tempi di Susanna Camusso, l’idea di una Carta dei diritti dei lavoratori in sostituzione dello Statuto dei lavoratori del ’70, reso insufficiente dalla grande trasformazione, e non avendo avuto risposte dalla politica (la proposta di legge è parcheggiata in parlamento), ora il sindacato guidato da Maurizio Landini deve decidere se imboccare la strada dei referendum abrogativi. Una scommessa difficile e densa di incognite, pensando al passato. Una scommessa che rimette in gioco anche la storica questione dei soggetti del conflitto e del ruolo che sul lavoro potrebbe (e dovrebbe) giocare la politica.