Di primo acchito potrebbe suggerire qualche pensiero malizioso il fatto che un intervento restrittivo della libertà di manifestazione – messo nero su bianco stavolta non dal governo Meloni, ma da una componente della sua maggioranza – faccia riferimento al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, meglio noto come Tulps (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). In realtà non è la prova provata di una nostalgia per il regime fascista, dal momento che quell’apparato normativo è stato assorbito dal regime democratico, pur se adeguato all’era della Repubblica attraverso ripetuti interventi del legislatore e della Corte costituzionale. Sarebbe tuttavia un segno di superficialità estrema sottovalutare il disegno di legge presentato dal capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, che ha vissuto il suo quarto d’ora di celebrità nei giorni scorsi, quando è stato “accompagnato” in piazza del Campidoglio, nel corso della manifestazione per Alexei Navalny, da sparuti ma insistenti contestatori che gli hanno ricordato – in favore di telecamera – gli ottimi rapporti storici fra il suo partito e quello di Vladimir Putin, Russia unita.
Abbiamo già raccontato qui delle tendenze repressive della attuale coalizione di destra-centro. Qual è il fine della nuova iniziativa legislativa avviata a palazzo Madama? Fin dalla relazione introduttiva, l’esponente della maggioranza governativa non fa nulla per nasconderlo: “Dopo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre” – scrive, fra le altre cose, Romeo nella sua relazione – “i focolai di antisemitismo già presenti in tutta Europa (documentati per l’Italia dal Cdec e dall’Eurispes) si sono estesi e propagati sotto la veste di antisionismo, dell’odio contro lo Stato ebraico e del suo diritto ad esistere e difendersi”. C’è dunque un’equivalenza immediata, semplice, automatica, fra chi vandalizza un luogo di culto, o chi disegna una svastica sulla saracinesca di un negozio di proprietà di una famiglia ebraica, e chi manifesta con la bandiera della Palestina e accusa Israele di genocidio, o anche solo di praticare apartheid e pulizia etnica: accuse contenute da anni in documentati dossier di numerose organizzazioni israeliane e internazionali di difesa dei diritti umani.
Per il promotore del disegno di legge, l’antisionismo e l’antisemitismo sono sinonimi, e questo non è un dettaglio: dato che poi all’articolo uno, terzo comma del testo, ovviamente, tutto questo viene nobilitato dietro la dichiarata intenzione di “prevenire e contrastare qualunque atto o manifestazione di antisemitismo”. Antisemitismo che però, per l’appunto, ci è stato appena spiegato che si esprime anche nella contestazione antisionista. Per esempio, attraverso le azioni nonviolente del movimento BDS (Boycott, Disinvest, Sanctions), sempre più diffuse in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti, e che coinvolgono fra l’altro gruppi e organizzazioni della diaspora ebraica, come Jewish Voice for Peace. All’articolo 3 il disegno di legge Romeo punta addirittura a limitare il diritto di manifestazione: “Il diniego all’autorizzazione di una riunione o manifestazione pubblica per ragioni di moralità, di cui all’articolo 18 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, può essere motivato anche in caso di valutazione di grave rischio potenziale per l’utilizzo di simboli, slogan, messaggi e qualunque altro atto antisemita ai sensi della definizione operativa di antisemitismo adottata dalla presente legge”.
Ma cos’è questa “definizione operativa”? Si tratta di un documento formulato dall’Assemblea plenaria dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance – Ihra), e successivamente adottato come linea guida dalle istituzioni dell’Unione europea. Documento che però è contestato duramente a livello internazionale. In una lettera indirizzata all’Ufficio per i diritti civili del Dipartimento per l’educazione degli Stati Uniti, firmata da una serie di organizzazioni per i diritti civili (se ne parla qui), viene sottolineato come la definizione dell’Ihra sia stata utilizzata “per sopprimere la difesa della libertà palestinese, violando i diritti fondamentali della libertà di parola e perpetuando il razzismo anti-palestinese e il fanatismo anti-arabo e islamofobo che si è intensificato dal 7 ottobre”. I promotori dell’iniziativa rilevano, inoltre, che “le scuole e le università (si parla sempre di istituti negli Usa, ndr) non sono riuscite a impedire e, in alcuni casi, hanno contribuito attivamente a questo ambiente ostile e agghiacciante per i palestinesi e i loro alleati, spesso giustificando le loro azioni facendo affidamento sulla stessa fusione tra critica a Israele e animus antiebraico che è al centro della definizione dell’Ihra”.
L’obiettivo dichiarato della proposta di legge sembra quindi essere quello di colpire chi manifesta a difesa del diritto del popolo palestinese a non essere cancellato dalla propria terra, attraverso le uccisioni di massa, la distruzione di ogni tipo di infrastruttura civile pubblica e privata, l’espulsione in direzione delle nazioni vicine, predicata apertamente da più di un esponente del governo israeliano. Tutte questioni, come sappiamo, sulle quali è competente la Corte internazionale di giustizia, organismo delle Nazioni unite, che dovrà valutare le accuse di rischio di genocidio sollevate dal Sudafrica contro Israele (vedi qui). Ma nel frattempo la stessa Corte, nella sua ordinanza provvisoria del 26 gennaio scorso, ha comunque fatto presente, accettando la denuncia del governo di Pretoria, che “Israele deve, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio, nei confronti dei palestinesi di Gaza, adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo II della presente Convenzione”. Di questo si discute, e per questo migliaia di persone in Italia, molte di più in tutto il mondo, anche nelle principali capitali europee, sono scese in piazza per chiedere un cessate il fuoco e lo “stop al genocidio”.
Il clima politico nel quale si muove l’iniziativa leghista è quello delle censure e delle reprimende agli artisti che hanno osato turbare la festa canora di Sanremo, con un urlo di ribellione per ciò che sta accadendo ai palestinesi soprattutto (ma non solo) a Gaza, è quello delle manganellate elargite, con una certa generosità, sul capo dei manifestanti che osano srotolare striscioni sotto le sedi Rai, dove si dice che venga data indicazione ai dipendenti (giornalisti compresi) di non girare immagini delle contestazioni. È il clima nel quale un sottosegretario leghista si è sentito libero di ipotizzare una sorta di Daspo artistico per i cantanti che parlano di politica a Sanremo (“qui non si parla di politica”, ricorda qualcosa?).
Nel silenzio o nella sottovalutazione generalizzata della situazione, spicca la voce di un coraggioso comitato di redazione, la rappresentanza sindacale interna dei giornalisti della direzione Approfondimento Rai (quella dei programmi di informazione come “Report” e “Presa diretta”, e dei talk show come “Agorà” e “Porta a Porta”): “Siamo sconcertati – si legge nel comunicato sindacale – dal clima di questi giorni. ‘Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero’, dice la Costituzione. Questo significa che non ci sono parole vietate, ma solo parole sulle quali ognuno ha diritto di dire la sua. E questo vale anche per la guerra. Il racconto della guerra non può essere dettato dalla collocazione internazionale del nostro Paese”.
Chi fosse tentato di fare spallucce non si illuda, posizioni come quella messa nero su bianco in un atto parlamentare dal senatore Romeo trovano consensi ben oltre la già autosufficiente maggioranza parlamentare: anche senza la complicità di pezzi importanti del cosiddetto centrosinistra (che però non possiamo escludere che ci sia, al momento giusto), quel testo può diventare una legge dello Stato.