Nella Fratellanza delle 3B e nel governo in esilio dell’Unione del Myanmar sono rappresentate, oltre ai buddisti arakanesi, alcune delle etnie di tradizione animista o di convertiti cristiani, perfino un musulmano Rohingya come viceministro ai diritti umani. È un solo ma significativo atto del cambio di paradigma dalla politica di Suu Kyi, che giustificò i massacri dell’agosto 2017 e della protezione politica promessa ai musulmani in un futuro governo come cittadini di serie A. Sarà il tempo a dire se davvero i buddisti accetteranno di far tornare oltre un milione di esuli, provvedendoli, tanto per cominciare, di una terra che attualmente stanno conquistando per altri scopi i guerriglieri dell’Arakan Army. Molti buddisti, sia birmani sia arakanesi, continuano a considerarli in cuor loro occupanti abusivi e portatori di una fede incompatibile con quella pacifica dell’Illuminato.
Dopo alcuni raid armati di un gruppo che sembra la costruzione di un’agenzia d’intelligence, esuli e residenti vennero accusati di sostenere l’esercito islamico di nome Arsa, o Difensori dei Rohingya – una sigla alla quale sono attribuite diverse azioni militari, a cominciare da quella che diede inizio ai massacri della pulizia etnica contro “l’etnia più perseguitata della terra”, come vennero definiti ufficialmente i Rohingya dalle Nazioni Unite. Ma l’entità delle loro azioni di terrore è stata irrilevante se non per giustificare l’olocausto e l’esodo. Quella terra che fu coltivata ed edificata con semplici canne di bambù, infatti, non esiste più, e i loro vecchi villaggi sono parte di grandiosi progetti bloccati solo dalla guerra. Unica alternativa, per una parte degli esuli, è quella di tornare, ma dentro aree recintate dove saranno tenuti sotto controllo come accade da anni nei ghetti per musulmani di Sittwe.
Che i guerriglieri dell’Arakan intendano seguire la stessa politica una volta riconquistato il proprio Stato è considerato abbastanza certo, e il lasciapassare birmano per la loro conquista di Maungdaw ne sembra la prova. Rohingya a parte, è un clima di febbrile entusiasmo per i successi ottenuti che spiega, almeno parzialmente, perché scarseggino conferme o smentite dei gravi fatti avvenuti sul fiume arakanese di Kaladan, l’8 febbraio scorso, oppure l’11, a seconda della fonte. L’incertezza rende dubbio anche il numero delle vittime, e, oltre alle difficoltà di comunicazione per i continui black out di Internet, pesa un certo imbarazzato silenzio dei protagonisti dell’incidente o tragedia. Autori sono stati, per loro ammissione, i ribelli dell’Arakan Army, sempre più forti del supporto della nuova “fratellanza” interstatale, decisa a infliggere al nemico comune il danno maggiore. L’affondamento delle navi colme di soldati e familiari va in questa direzione: demoralizzare le truppe regolari e spingerle alla diserzione. È successo in decine di casi sia su questi confini sia in tutti gli Stati dove opera la resistenza: interi battaglioni, anche tre di quattrocento uomini, si sono dati alla macchia incuranti delle condanne a morte emesse contro di loro dai tribunali militari dopo il fatidico 27 ottobre. Sempre di più sono anche quelli che si uniscono alla resistenza.
L’attacco alle navi nell’Arakan, con le numerose presunte vittime tra soldati e loro congiunti, è stato senza dubbio parte e continuazione della stessa Operazione 1027 divenuto il numero magico di tutta la offensiva da est a nord e sud dell’Unione. Per quanto crudele, l’episodio è stato inserito tra gli atti di guerra, con tutte le attenuanti invocate dai bollettini ufficiali dell’Arakan Army nel comunicare l’“incidente”. I ribelli si sono attribuiti l’affondamento delle navi ma non la strage, senza provare – come assicurato – di avere “arrestato” i superstiti e di averli trattati “secondo le convenzioni di Ginevra” sui prigionieri. Forse non sapremo mai la verità, a meno che non emergano prove del presunto massacro a valle delle acque del fiume Kaladan, già testimone di molte battaglie antiche e tomba di tante vittime innocenti. Per queste ombre del passato, adesso nessuno si cura di sapere se tra i flutti galleggiano verso il mare i cadaveri dei vecchi carnefici e delle loro sfortunate famiglie.
Per capire la complessità del grande gioco che evolve lungo questo corso d’acqua, l’India ha investito qui milioni nell’omonimo progetto di “transito multimodale Kaladan” destinato a scambi ben più vasti degli attuali, e attualmente in un pericoloso stallo del quale la Cina non può che gioire. Si è già assicurata, infatti, un porto di acque profonde nella vicina isola di Kyaukphyu, da dove partono i gasdotti per lo Yunnan cinese, e ha la garanzia di tutte le parti che nessuna guerra o guerriglia toccherà i propri interessi, ormai consolidati a prescindere da chi governerà.
Il comunicato diffuso dall’Arakan Army per annunciare il bombardamento delle navi sul Kaladan non contiene nessun accenno al numero delle vittime, e la grande stampa non ha potuto o voluto verificare le spaventose cifre comparse sul sito di news online “Elevenmedia” (considerato non sempre attendibile) e rilanciate da un testo di conferma su “CJ Platform media”. Secondo alcune di queste indiscrezioni, ben pochi tra i passeggeri a bordo sapevano nuotare. Se le circostanze della storia restano ancora oscure, è allo stesso tempo chiaro, invece, l’imbarazzato e livido silenzio dell’ex esercito più potente del Sud-est, che ha affidato ad anonimi netizen la versione del massacro, circolata poi su vari media, con l’impressionante numero dei morti. Altrettanto probabile è la ritrosia a dire il vero da parte dei guerriglieri dell’Arakan Army, per non associare la propria battaglia di indipendenza a un crimine di tale portata contro bambini, vecchi e donne. Ma l’altra verità indiscutibile è che le premesse di un tale gesto d’odio sono tali da spiegare, se non giustificare, tanta violenza agli occhi di tutti i residenti attorno al luogo dell’agguato. Al punto che si sospetta la reazione a colpi di machete degli abitanti contro soldati e familiari giunti a riva nuotando.
Il fatto è che fino a poche ore prima di abbandonare a gambe levate ogni postazione e alloggio con fagotti e figli terrorizzati, i tatmadaw avevano compiuto ogni genere di abuso contro i locali sospettati di sostenere i ribelli armati. Ai bombardamenti aerei contro postazioni dell’Arakan Army in azione tra i civili (vi ricorda qualcosa?) hanno fatto seguito raid con cannonate e incendi nei villaggi. Bombardamenti di notte e di giorno, senz’alcuna tregua, duravano da anni, e nei giorni precedenti all’“incidente” erano ancora più frequenti. Non è difficile capire perché anche un buddista convinto, come ogni essere umano, possa giungere sull’orlo della disperazione e diventare capace di uccidere per la rabbia, l’ansia e l’insonnia delle notti spese sotto le bombe o nei cespugli delle foreste.
Ma il singolo episodio lascia purtroppo il tempo che trova isolato da un contesto di sofferenza che ha radici storiche e un presente dominato dall’ubiqua, volutamente contradditoria, politica asiatica e internazionale della Cina. Il governo di Unità nazionale (Nug), costituito in esilio da vari gruppi armati e dagli ex compagni di Suu Kyi nel parlamento disciolto tre anni fa, reclama, come abbiamo visto, la direzione suprema della resistenza che sta abbattendo una per una le postazioni strategiche dei dittatori sulle principali e preziose arterie di collegamento con i grandi vicini indiano e cinese. Anche altri organismi della futura repubblica federale – come il Crph, formato dagli ex deputati del disciolto parlamento – si aspettano un ruolo importante nella futura Unione. Ma è sempre Pechino – anzi Kunming, a ridosso del confine dove si tengono vertici pubblici e segreti tra le parti in causa – il cuore di tutte le strategie nella regione.
La sovranità cinese, cresciuta in regime di monopolio fino al 2010, è stata ripristinata sul Myanmar dopo meno di dieci anni di ubriacatura occidentale, quando l’esercito, che aveva cinquecentomila uomini e oggi ne ha se va bene poco più della metà, ha ripreso il totale controllo su tutti i business, garantendo a Pechino la sicurezza dei suoi affari, strade, ferrovie, gasdotti che succhiano al largo delle turbolente coste arakanesi. Quando l’Occidente si riversò in Myanmar, con le prime aperture democratiche e la romantica “riconciliazione” di Suu Kyi coi vecchi aguzzini, la Cina restò a osservare le conseguenze dei ridotti introiti rispetto al monopolio, un piccolo ma serio segnale d’allarme per i grandiosi progetti della nuova Via della Seta di Xi Jinping. Quando i militari ripresero il potere assoluto, Pechino diede certamente il suo assenso a fargli interrompere la road map to democracy, la Carta verso la democrazia da loro stessi scritta, e si limitò a parole di circostanza quando vennero incarcerati o costretti all’esilio tutti i parlamentari della Lega di Suu Kyi appena eletti con voto plebiscitario.
Non a caso il ministro degli Esteri cinese, di fatto il numero due di Xi, si trovava nella capitale Naypyidaw appena il giorno precedente al primo febbraio 2021, data del golpe. Sua tappa successiva fu Kunming per tranquillizzare segretamente i ribelli che ogni cosa si sarebbe aggiustata col tempo. All’indomani, com’è noto, l’Occidente, preso da altre battaglie, ha abbandonato del tutto anche questo fronte, tranne lasciarvi imprese incuranti di ciò che avveniva attorno. Fece però autocritica per aver puntato tutto su un’eroina dei diritti umani e Nobel della pace, come Suu Kyi, che andò all’Aia per difendere i suoi alleati in divisa dalle accuse di genocidio degli islamici Rohingya dell’Arakan. L’Occidente ha così, senza rimorsi, rinunciato a sostenere i popoli del Myanmar e dato ragione a Bush secondo cui questo Paese era una parte dell’Asse del diavolo. Solo entusiasti come Obama credevano di avere esorcizzato i demoni del passato. Usa, Europa e produttori asiatici fecero subito a gara per collegare sessanta milioni di persone-clienti alla grande Rete Internet, un dono prezioso del capitalismo per le nuove generazioni assetate di mondi ed emozioni virtuali, dopo anni di oscurantismo e moralismi bigotti. Ma una volta trasformate – in pochi anni, tra il 2010 e il 2020 – le stesse dinamiche sociali e culturali a ogni latitudine dell’Unione, ecco che il tubo di collegamento verso e dall’esterno si è chiuso, o è diventato uno strumento talmente difficile da utilizzare tecnicamente (black out, controlli governativi sui contenuti) che molti ci rinunciano. Molti altri, invece, sempre di più, identificano Internet con la dea della libertà appena persa, e per riconquistarla sono disposti a tutto.
Anche a fare strage di donne e bambini in mezzo a un fiume? Certamente – dicono i birmani ed esuli di varie etnie, che conosco dai tempi dell’esilio in Thailandia in seguito alle purghe dell’88 e al golpe del 1990, che annullò le prime elezioni libere e, come oggi, ripristinò la legge marziale in ogni aspetto della vita pubblica. “Mai più perdoneremo”, hanno infatti scritto e gridato i loro figli, memori dell’esempio dei genitori “ottantottini”, tra i primi a scegliere la disobbedienza civile e ad avere avuto il coraggio di scendere da soli in piazza, a pochi giorni dal colpo di Stato. Hanno rischiato i mitra dei soldati armati di pentole, striscioni e scudi a sarcastica imitazione di quelli della polizia, con cartelli e magliette con la foto della leader Suu Kyi in carcere. Sono loro ad avere formato i primi nuclei delle Forze di difesa popolare (Pdf), e, quando la propria presenza nelle città era divenuta pericolosa per sé e i familiari, sono andati ad addestrarsi e a combattere nelle foreste dove gli esperti guerriglieri etnici fornivano loro istruzioni e un posto dove stare e agire.
Tutte le religioni spiegano in teoria che l’odio ha anche ragioni vere e profonde per manifestare, quando ogni altro mezzo della ragione è neutralizzato dalle sofferenze inflitte l’un l’altro. Tante sono le cause precedenti, a cominciare dagli influssi della colonizzazione inglese, che divideva e imperava come hanno imparato a fare i cinesi, come hanno tentato di fare gli Stati Uniti e l’Europa sostenendo i democratici di Suu Kyi, in cambio della prospettiva di un controllo più incisivo dell’Occidente su tutto il Sud-est asiatico e l’Oceano pacifico dominato dalla più vicina Pechino. Ma, come abbiamo già visto, da tre anni a questa parte, la presenza occidentale si è squagliata come neve al sole, limitandosi al supporto con donazioni segrete e intelligence ai vari gruppi antigolpisti, soprattutto attraverso il governo di unità nazionale, i cui membri parlano un inglese fluente e hanno creato un network in grado di determinare azioni combinate a migliaia di chilometri di distanza.
Per capire il ritiro occidentale, si deve però tornare al fattore principale: nel Myanmar si sta combattendo in territori di importanza strategica e vitale per Pechino, a cominciare dallo Stato Shan che confina per gran parte dei tremila chilometri di frontiera e che l’alleanza 3B sta riconquistando metro per metro. I collegamenti ferroviari e stradali della moderna Via della Seta, passano tutti da qui, e i porti di acque profonde costruiti e in costruzione sulle coste dell’Arakan permettono a navi e merci cinesi di bypassare il lontano, affollato e insicuro stretto di Malacca e gettare un occhio alla Marina indiana, supportata dalla flotta statunitense. È per garantire questi corridoi commerciali e strategici, nonostante il clima di perenne conflitto, che Pechino si è attenuta alla politica di supportare in quantità variabili quasi tutti i fronti in grado di proteggere impianti e cantieri. In particolare, apprezza e premia chi combatte di là dalla frontiera le mafie dei casinò.
Ne è consapevole l’esercito del governo di Naypydaw (capitale della Birmania), che si sta sforzando di riconquistare in tutti i modi le grazie dei potenti alleati chiaramente molto più flessibili e schizzinosi nella scelta dei partner. Fatto è che la corruzione dilagante nel Paese, devastato dalla mancanza di mercati e moneta pregiata, ha urtato duramente la pur coriacea sensibilità etica dei cinesi che si sono ritrovati, a portata di tour organizzati, una rete di casinò reali e online, dove i propri cittadini spendono milioni di yuan per un gioco illegale e “rovinafamiglie”. È un aspetto secondario, ma molto importante, nell’attuale fase della guerra di resistenza. Sia l’Mndaa sia i Ta’ang, per compiacenza o forse convinzione, hanno assaltato e smantellato molti casinò e centri di truffa, vere e proprie fortezze con annesse residenze recintate per coprire i vari traffici umani e le truffe online da capogiro. Migliaia di ignari giovani, soprattutto asiatici, sono stati adescati via Internet con l’offerta di un lavoro pulito ben retribuito, e poi privati dei passaporti e della libertà una volta dentro. Qui dovevano far cadere altri ignari malcapitati nella rete delle varie truffe virtuali studiate dai loro carcerieri, come crearsi avatar e prospettare improbabili fortune, affari o un eterno amore. Molti incauti cibernauti hanno versato enormi somme sul conto corrente di gangster, che ancora oggi picchiano o torturano quanti cercano di scappare o di denunciare lo scandalo.
Dopo le operazioni dell’Mndaa e del Ta’an army, i due “fratelli” parlanti cinese benvoluti a Pechino, anche l’esercito di Naypydaw ha cercato di recuperare crediti “etici” smantellando, a sua volta, un paio delle numerose aree fortificate che pagavano gabella alle guardie di frontiera obbligate a spartire i proventi della “protezione” con i tatmadaw. Ma a svolgere un curioso ruolo di moralizzatore, a sostegno della campagna anticrimine dei vicini cinesi – dai quali sono discendenti –, è stato uno degli eserciti privati più grandi e armati del mondo. L’Uwsa è il braccio armato dei leader di un’etnia di nome Wa, ex tagliatori di teste, ex produttori seriali di oppio, attuali signori di un mercato delle metamfetamine, che dilaga da decenni in tutto il Sud-est e oltre. È loro il regno autonomo lungo i confini settentrionali della Thailandia, dove migliaia di precedenti famiglie locali sono state deportate per fare posto ai Wa, che vivevano sparsi su varie colline e montagne dello stato Shan. Il regno di questi narcos asiatici è aperto a tutti ma vigilato da trentamila uomini, addestrati e accessoriati con le più moderne armi in commercio, spesso barattate con droga.
Non serve dunque molto per capire che la pletora di tanti proxi e alleati, foraggiati e diretti dal governo cinese pressoché in tutta l’Unione del Myanmar, è degna del motto del vecchio leader Deng Xiao Ping, successore di Mao: “Non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che prenda il topo”.
(La prima parte dell’articolo, qui)