Lunedì 19 febbraio sapremo. Per ora dal ministero non trapelano indiscrezioni sulle scelte che saranno fatte, e neppure i segretari generali dei sindacati metalmeccanici, convocati per l’ottava volta a Palazzo Chigi, hanno ricevuto documenti formali. “Abbiamo ricevuto solo la lettera di convocazione – dicono i sindacalisti di Fim, Fiom, Uilm – e sappiamo che in queste ore sono in corso trattative serrate tra il pool di avvocati di Invitalia (la parte pubblica) e quelli di ArcelorMittal, ma su quello che si vuole fare c’è per ora silenzio assoluto”. E se c’è silenzio sulle scelte industriali, figuriamoci sul processo di transizione green.
In un articolo su “terzogiornale”, Guido Ruotolo ha spiegato con precisione l’impasse della decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia e il futuro sempre più incerto del più grande stabilimento siderurgico d’Europa (vedi qui ). “Una settimana ancora – aveva scritto Ruotolo il 31 gennaio – e sapremo se il partner franco-indiano di Invitalia uscirà formalmente da Acciaierie d’Italia, lasciando sull’orlo della chiusura l’ex Ilva di Taranto”. Invitalia (che detiene il 38% delle azioni di Acciaierie) potrà chiedere al ministro Urso l’amministrazione straordinaria del gruppo siderurgico, lasciando andare via la società franco-indiana ArcelorMittal, che ha il 62% del pacchetto azionario.
Decarbonizzazione addio?
Per ora è ancora tutto sospeso, e chi si aspettava novità anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale rimane ancora deluso. “Sembra ieri – ricordava sempre Ruotolo – quando il presidente di Acciaierie, Franco Bernabè (l’uomo che era stato scelto da Draghi per salvare l’Ilva, ndr), ripeteva come un mantra ‘decarbonizzazione o morte’”. Invitalia caldeggiava la compatibilità ambientale dell’acciaieria introducendo i forni elettrici, come unica possibilità per non chiudere il più grande sito siderurgico europeo. Ma poi, nell’ottobre scorso, lo stesso Bernabè aveva annunciato formalmente l’impasse del progetto della decarbonizzazione, pur approvato dal Consiglio di amministrazione di Acciaierie nella primavera del 2022. Prima la pandemia, poi la crisi energetica e la guerra russo-ucraina, avevano cambiato totalmente lo scenario. Che succederà ora?
“Nessuno pensi di scaricare sulle lavoratrici e sui lavoratori dell’ex Ilva e dell’indotto la situazione che si sta determinando e che riguarda, in particolare, le condizioni degli stabilimenti dopo anni di malagestione, di assenza di investimenti e di mancanza di manutenzioni ordinarie e straordinarie”, ha dichiarato Loris Scarpa, segretario nazionale della Fiom Cgil, responsabile della siderurgia. “Si è scelto di non produrre le tonnellate di acciaio previste dagli accordi e dai piani ambientali, nonostante la domanda di acciaio sia forte e l’Italia sia costretta a importare dall’estero per poter soddisfare il proprio fabbisogno – spiega Scarpa –, questa scelta dei soci non può essere pagata dai lavoratori. È ora di finirla con lo scaricabarile, interverrà chi di dovere per accertare le responsabilità”. Per la Fiom il rischio più grosso, a questo punto, è quello di scegliere soluzioni che mettano a rischio “la continuità produttiva degli stabilimenti e delle aziende dell’indotto”. “L’ex Ilva è un’azienda definita strategica nell’interesse generale del Paese, ognuno deve fare la propria parte, a partire dal governo, dalle istituzioni locali e dal sistema delle imprese”.
Parola d’ordine: continuità produttiva
Di continuità produttiva, come unica soluzione per salvare lo stabilimento di Taranto (ci sono in gioco tra diretti e indotto ventimila posti di lavoro) e al tempo stesso per creare le condizioni della decarbonizzazione, parla anche il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, che ha commentato la recente audizione in Senato dell’amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli. Da quell’audizione, dice Palombella, che conosce molto bene la realtà degli stabilimenti di Taranto, avendo cominciato proprio all’Ilva la sua carriera di sindacalista, è emerso di nuovo con chiarezza che non si può continuare a tenere aperta una trattativa tra Invitalia e il gruppo franco-indiano ArcelorMittal. “È stata raccontata ancora una volta una realtà completamente diversa da quella che vivono ogni giorno i lavoratori negli stabilimenti. Non abbiamo ascoltato nessuna assunzione di responsabilità per il tracollo produttivo dell’ex Ilva e per le migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione”.
L’analisi di Palombella è confermata anche dalle parole usate dalla stessa Morselli durante un incontro con tutti gli imprenditori dell’indotto che lamentano il ritardo dei pagamenti e minacciano cause. “Penso che sappiate – ha detto Morselli – qual è la situazione, penso che sappiate che ci sono grandi partite che si stanno giocando a livello molto elevato, a livello di governo e di tutti gli altri soci, e penso che stiano arrivando a una soluzione”. Siamo all’ultimo miglio. “Sono sicura – ha aggiunto – che la decisione è molto veloce. Si tratta di resistere ancora un poco. Questo è uno stabilimento talmente importante che bisogna lasciare il tempo di prendere una decisione”.
Ascoltata dalla Commissione Industria del Senato, Morselli si è sbilanciata anche sui posti di lavoro in gioco. Il problema dell’ex Ilva è la liquidità. L’azienda “è viva, ancora produce, ha gli impianti in efficienza e paga gli stipendi”, ha spiegato, cercando di allontanare l’ipotesi dell’amministrazione straordinaria. “La situazione non è drammatica”, spiega, anche se – ammette – “abbiamo un enorme eccesso di personale”. Esuberi, a suo dire, legati per lo più al calo della produzione, che l’anno scorso si è fermata a tre milioni di tonnellate.
Il chiarimento che non c’è
I sindacati sono delusi e sempre più preoccupati. “In cinque mesi il governo non ha espresso una linea chiara. Ci si aspettava un chiarimento sulla gestione economica, sulla situazione impiantistica e sulla quantità di materie prime disponibili per mantenere in vita gli stabilimenti”, spiega ancora Palombella. “Ci aspettavamo, inoltre, qualche chiarimento sulla destinazione delle bramme, che in queste ore vengono spedite anziché essere laminate con i nostri impianti per ottenere qualche risorsa in più. Ci aspettavamo risposte per tutti quei lavoratori delle imprese che stanno manifestando a Taranto, sul ponte girevole, e che rivendicano crediti scaduti per oltre centotrenta milioni di euro”. “Occorre immediatamente – conclude Palombella – interrompere questo teatrino che diventa ogni giorno più drammatico. Lunedì dal governo vogliamo finalmente risposte chiare e definitive, non ci può essere un futuro per l’ex Ilva con Mittal”. La situazione a Taranto, per Palombella, sta precipitando rapidamente. Dei tre altiforni dello stabilimento due sono spenti, mentre il terzo marcia a rilento. Ci sono già tremila lavoratori in cassa integrazione, e il gruppo Mittal non fa niente: l’unica cosa che chiede è quella di essere sollevato da ogni responsabilità. “Ma non è possibile alcuna manleva”.
Intanto cacciare ArcelorMittal
“L’ex Ilva è un caso scuola di cosa vuol dire l’assenza di politica industriale in questo Paese – dice Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl –, l’acciaieria di Taranto dovrebbe avere il rango di bene nazionale. È giunto il momento per il governo di fare la scelta giusta, considerando la doppia responsabilità di Meloni: preservare il più grande soggetto industriale d’Italia e l’investimento e le quote pubbliche del gruppo. Basta andare a traino di ArcelorMittal. Siamo all’ultimo giro di pista”. La Cisl, dunque, anche in linea con le posizioni assunte dalla confederazione di via Po a livello nazionale, si rivolge direttamente alla premier per convincerla che l’unica strada per salvare il gruppo Acciaierie d’Italia “è il ritorno in maggioranza del pubblico in attesa di trovare nuovi partner”.
Le speranze sul gruppo franco-indiano sono ormai superate. “Non mi sembra che si siano impegnati a rilanciare il gruppo e che siano pronti a investire – ha dichiarato Benaglia in un’intervista a “Repubblica” –, se il governo riesce a trovare un accordo con Mittal per tornare ad avere la quota di maggioranza in modo consensuale, per noi va bene. Il traino deve però essere in mano al pubblico. Sia chiaro. Come sindacati non pensiamo e non vogliamo la nazionalizzazione, ma è giusto che lo Stato preservi un suo bene fondamentale per il sistema Paese. La pensano allo stesso modo i più importanti industriali italiani. E crediamo sia meglio evitare l’amministrazione straordinaria che creerebbe solo un grande sconquasso sociale”.
La delusione di Riondino e Diodato
Intanto, le polemiche sull’ex Ilva crescono anche in campo culturale. Durante una presentazione del film Palazzina Laf, Michele Riondino, regista e attore, si è detto molto deluso sia dal governo sia dall’opposizione. La sua delusione è relativa al fatto che il suo film-denuncia è passato quasi inosservato. Dei contenuti del film avevamo parlato su “terzogiornale” (vedi qui).
Effettivamente, però, l’attenzione alla pellicola è stata scarsa. Questo spiega la durezza delle dichiarazioni dell’attore che parla della sua terra: “A Taranto si muore di lavoro, non si vive di lavoro”, ha denunciato Riondino, che ha aggiunto di avere “faticato ad accettare questa presentazione istituzionale”. Il pensiero è per le migliaia di cassintegrati che subiscono l’umiliazione di stare a casa e non fare nulla, proprio come i lavoratori della palazzina Laf. “La verità è che non ci sono le condizioni perché quella fabbrica possa continuare a produrre senza uccidere gente”, ha sottolineato, ricordando che “gli impianti sono sequestrati”.
Molto nette anche le dichiarazioni del cantante Antonio Diodato, reduce da Sanremo: “A Taranto è in atto una rivoluzione – dice –, lo sguardo dei cittadini sta cambiando, e non c’è niente di più doloroso di vedere come venga ignorata una città che tenta di risollevarsi. Chiederei di fare qualcosa per questi giovani che lottano, credono nella loro terra e hanno ancora speranza. Vi chiedo di avere a cuore le loro aspirazioni, fatelo per chi crede in un futuro migliore”.